“Quando si parla di sostenibilità, bisognerebbe parlare di conoscenza. Ma questa conoscenza, purtroppo, molto spesso non c’è”. La nostra intervista a Giusy Bettoni (C.L.A.S.S.)
Troppo facile dire “sostenibilità”. Troppo facile e, quasi, banale. Questo termine, sul quale da anni si gioca la partita evolutiva di qualsiasi settore industriale, sembra essere diventato soltanto un involucro: uno strumento di marketing. Il che rappresenta, paradossalmente, un ostacolo per chi (aziende e settori produttivi: per esempio, l’industria conciaria italiana) da decenni gestisce la propria dimensione green in un modo concreto, autentico e finalizzato al miglioramento continuo. Virtù sostenibili vere che non trovano la stessa audience di chi eccelle, invece, in una pratica differente: quella del greenwashing. Come uscire da questo circolo vizioso? lo abbiamo chiesto a Giusy Bettoni, CEO di C.L.A.S.S. (Creativity Lifestyle and Sustainable Synergy), hub di comunicazione che si pone un obiettivo molto importante e ambizioso. Quello di dare un senso nuovo, utile e costruttivo alla percezione della sostenibilità lungo tutta la filiera del fashion system.
Di cosa parliamo quando parliamo di sostenibilità
Una ricerca dell’International Consumer Protection Enforcement Network (ICPEN) segnala che addirittura il 42% del materiale informativo diffuso online, quando arriva alla sostenibilità dei prodotti, è “esagerato, falso o ingannevole”: cosa dimostra questa scoperta?
Si tratta della conferma che, quando si parla di sostenibilità, bisognerebbe parlare di “conoscenza”. Ma questa “conoscenza”, purtroppo, molto spesso non c’è. Sostenibilità non è un termine leggero, trending e non rappresenta un singolo valore. Se ci fosse “conoscenza”, si saprebbe, infatti, che la sostenibilità è un insieme di asset che coinvolge l’azienda, il processo, il prodotto e, alla fine, il consumatore con valori di nuova generazione. La vera problematica, dunque, risiede nella necessità di dover mettere in pratica tutto ciò e poi comunicarlo, esprimendo la reale “conoscenza” di quello che si fa.
In che modo?
Occorre allineare lo storytelling con lo storymaking. Perché promuovere il primo senza essere in possesso del secondo significa fare greenwashing e arrivare alle conclusioni della ricerca ICPEN. Anche se questo aspetto non è quello che preoccupa di più.
In che senso?
Nel senso che esistono moltissime aziende ricche di un enorme storymaking che, però, non sono capaci di fare storytelling.
Un controproducente “silenzio dei sostenibili”?
Ci troviamo spesso di fronte ad aziende e realtà produttive che hanno reali e diffuse virtù green, ma non sanno raccontarle con semplicità. Quindi, non riescono a valorizzare se stesse e il loro impegno. Succede, soprattutto, in Italia e Giappone, dove esiste un backgroound tecnico green enorme che non si riesce a rendere fruibile. Così, anche chi fa le cose bene finisce dentro il calderone della massa che abusa del marketing.
Come andare oltre questa incapacità?
L’obiettivo deve essere quello di far capire il lato tecnico della sostenibilità di cui si è protagonisti. È una questione di traduzione, per dare al consumatore la possibilità di fare scelte di acquisto davvero informate e consapevoli.
Sembra di capire che una parola come “sostenibilità”, di fronte a questo panorama, sia ormai vecchia e svuotata di significato: quali parole, dunque, possono essere più utili e significative?
Crediamo che oggi si debba parlare di innovazione responsabile. Ma, poi, questa “responsabilità” e questa “innovazione” devono essere costantemente misurate e tracciate: non si può e non si deve essere generici. Se dico che, per esempio, la mia strategia si basa sulla tracciabilità, con la massima trasparenza, onestà e chiarezza devo perseguirla.
La formula della sostenibilità
Esiste una formula sulla quale un’azienda può basare il proprio approccio green e la relativa promozione?
Diciamo che, secondo noi, un’azienda dovrebbe seguire un percorso fatto di quattro step che riguardano la sua attività a tutto tondo, dalla gestione del processo al prodotto arrivando all’aspetto commerciale.
Quali sono?
Design, innovazione, responsabilità e comunicazione. La dimensione sostenibile di un’azienda diventa uno strumento se si raggiunge la somma di questi quattro fattori e se la si persegue con serietà e impegno.
E qui si torna all’abbinamento storytelling + storymaking… Se si possiede uno storymaking chiaro, lo storytelling deve essere chiaro di conseguenza. A fine 2018 una ricerca ha rivelato che il consumatore non comprava prodotti che si dichiaravano green perché non gradiva il loro design, ma anche perché diffidava di quella dichiarazione di sostenibilità. Ne deriva che per il consumatore è importante la misurazione dell’impegno.
L’esempio della pelle
L’industria conciaria, in particolare quella italiana, in questo senso rappresenta un’eccellenza basata su una costante e ricca analisi della propria dimensione sostenibile e circolare: perché tutto ciò non arriva al consumatore?
Perché la pelle subisce un percepito che deve essere gestito con molta attenzione. Le persone, quando pensano alla pelle, non la associano immediatamente alla circolarità, ma alla cura degli animali. Quindi occorre fare estrema chiarezza, con grande trasparenza, su tutto quello che sta dietro la pelle e a un’industria, come quella italiana, che mostra un impegno storico d’avanguardia sotto questo punto di vista. Va ribaltata la percezione comune della pelle, perché le percezioni riescono a essere convincenti anche di fronte all’evidenza contraria. E, come tutta la filiera della moda, per riuscirci, occorre aprirsi al confronto, al dibattito, senza esacerbare i toni. Occorre essere autentici e trasparenti. E parlare.