Perché l’incendio del Kantamanto Market è un disastro per tutti

Il 2 gennaio è andato in fumo il 60 per cento del Kantamanto Market, in Ghana, dove ogni mese arrivano dai mercati occidentali 60 milioni di prodotti fashion, invenduti o usati. Più della metà entravano in un meccanismo di economia circolare. Adesso cosa succederà?

di Massimiliano Viti

 

L’incendio che, il 2 gennaio, ha distrutto oltre il 60 per cento dei 70.000 metri quadrati del Kantamanto Market, in Ghana, ci tocca da vicino. Per alcuni attivisti è una responsabilità che quantomeno andrebbe condivisa con l’industria della moda di Stati Uniti, Europa e Australia. Da qui, infatti, ogni mese arrivano a Kantamanto 60 milioni di capi invenduti e usati che, potenzialmente, possono essere ricollocati sul mercato, mentre almeno il 40 per cento finisce dritto nella spazzatura. L’impegno a Kantamanto era quello di creare una filiera sempre più circolare, in grado di ridurre quest’ultima percentuale. L’incendio, catastrofico, ora rischia di azzerare tutto o quasi.

L’incendio del Kantamanto Market

Alla fine delle operazioni di rivendita, riutilizzo, riparazione e nuova produzione, ogni mese, a Kantamanto riciclavano un volume di prodotti in grado di dare lavoro a circa 30.000 persone. Questo vasto mercato di vestiti di seconda mano, considerato il più grande dell’Africa occidentale – e tra i più grandi al mondo -, è andato a fuoco lo scorso 2 gennaio e almeno 8.000 venditori (c’è chi dice 10.000) sono stati direttamente colpiti “dal più grande disastro registrato nei 15 anni di vita del mercato”, spiega Or Foundation, un’organizzazione no profit con sede tra gli Stati Uniti e il Ghana attiva nella creazione di una “economia circolare guidata dalla giustizia” e che lavora nel mercato di Kantamanto dal 2016. Un disastro di enormi proporzioni per la comunità locale, ma anche per la fashion industry.

Creare un sistema circolare

Daniel Mawuli Quist, direttore creativo della Or Foundation, ha dichiarato a Sourcing Journal che “mentre il settore della moda spesso decanta la sostenibilità come una parola d’ordine o una strategia di marketing, Kantamanto dimostra che la vera sostenibilità va oltre le nuove vendite. Si tratta di creare un sistema circolare che valorizzi ogni parte della catena del valore”.

Una sfida allo spreco

È più diretta Katya Moorman, fondatrice della rivista di moda sostenibile No Kill, che su Instagram scrive: “Il mercato di Kantamanto è un pilastro della sostenibilità. Sfida le pratiche di spreco dell’industria della moda. Questo ciclo grava su alcune comunità, come Kantamanto, dove i lavoratori si assumono la responsabilità di gestire le ricadute della sovrapproduzione. Se questi marchi possono generare miliardi di profitti, possono – e dovrebbero – contribuire a ricostruire i mezzi di sostentamento delle persone colpite dalle loro pratiche”.

E adesso?

Anche perché, senza il Kantamanto Market, come e dove la moda smaltirà la sua sovrapproduzione? Sebbene le conseguenze dell’incendio debbano ancora rivelarsi completamente, la domanda è se i più grandi marchi di moda dovrebbero pagare il conto del disastro. In caso di risposta negativa, allora, dovrebbero correggere le loro strategie, riducendo i livelli di sovraproduzione. “Le comunità locali non possono e non dovrebbero affrontare questa situazione da sole. Le aziende devono estendere completamente la loro responsabilità di produttori” ha scritto su Instagram Rafael Kouto, designer svizzero specializzato in upcycling. Dounia Wone, Chief Impact Officer di Vestiaire Collective, sottolinea a Forbes che: “Kantamanto Market rappresenta sia le sfide che le opportunità per la moda sostenibile. Ora più che mai, questa tragedia ci ricorda l’urgente necessità di ripensare al funzionamento del sistema della moda globale”.

Non interrompere, ma regolamentare

Una proposta in questo senso arriva da Baptiste Lingoungou, presidente dell’associazione La Mode Européenne. Lingoungou considera l’Africa “la pattumiera degli scarti tessili dell’Europa”, ma è contrario all’interruzione dell’invio di abbigliamento. Meglio regolamentarlo. Come? In vari modi. Primo: gli indumenti che arrivano in Africa devono essere selezionati per evitare l’invio di rifiuti inutilizzabili. Secondo: l’Europa dovrebbe stanziare fondi affinché ci sia una gestione sostenibile dei rifiuti tessili in Africa. Terzo: l’avvio di una partnership a lungo termine per costruire infrastrutture solide. Quarto: sostenere l’industrializzazione locale, con investimenti in impianti di riciclo e valorizzazione. Quinto: attivare la collaborazione con eco-organismi come Refashion. Infine, probabilmente la sfida più difficile: lottare contro la moda usa e getta. Una vera è propria mission impossible.

Immagini tratte dall’account Instagram di The Or Foundation

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