Francia: è un boomerang la legge che vieta di distruggere l’invenduto

In Francia, la legge anti-spreco si è sorprendentemente trasformata in un incoraggiamento alla sovrapproduzione. Un boomerang. È difficile da credere, ma il meccanismo attraverso il quale il fast fashion specula sulla legge AGEC (Anti-Gaspillage pour une Economie Circulaire), trasformandola in una fonte di reddito, è stato svelato da un’inchiesta condotta da Disclose, in collaborazione con Reporterre, sulla base di documenti riservati

di Massimiliano Viti

 

La legge anti-spreco promulgata il 10 febbraio 2020 – ed entrata in vigore nel 2022 -, proibisce la distruzione dell’invenduto. L’obiettivo era quello di combattere la sovrapproduzione della moda: non certo quello di stimolarla attraverso contributi statali a più livelli. Questa legge prevede che chi ricicla, vende agli stockisti o dona ad associazioni i suoi beni invenduti ha diritto a una riduzione fiscale pari al 60% del valore stimato dei capi di abbigliamento.

Oppure, pari al costo di produzione se gli articoli sono contabilizzati nelle rimanenze di magazzino. O, ancora, pari al valore del bene alla data della donazione se invece fanno parte delle immobilizzazioni. In altre parole, sono le aziende stesse a determinare il valore dei loro prodotti. Per esempio: per un paio di pantaloni Shein del valore stimato di 12 euro, il marchio cinese riceve una detrazione fiscale di 7,20 euro se decide di donarlo a un centro di riciclo. L’inchiesta di Disclose si concentra su tre marchi: Shein, Decathlon e Kiabi.

I broker dell’invenduto

Sul mercato vengono venduti interi camion di rimanenze griffate Shein. Sono i broker di beni invenduti – figura professionale nata in modo estemporaneo -, a mettere in contatto i grandi marchi con le associazioni benefiche o con i centri del riuso. In una mail consultata da Disclose, un broker cerca di piazzare 21 metri cubi di prodotti Shein per un valore di circa 53.000 euro dai quali ottenere 31.900 euro di risparmi per le imposte del “donatore”.

Questa legge è un boomerang

Sulla base di una tabella in possesso di Disclose, Decathlon ha beneficiato di 709.000 euro di crediti d’imposta nel 2024 grazie a 1,18 milioni di euro di prodotti invenduti e donati tramite Comerso, un’azienda-broker. Tra il 2021 e il 2024, sempre secondo questo documento interno, il credito d’imposta è quasi triplicato. “Nel 2023, queste donazioni equivalgono allo 0,01% del fatturato di Decathlon Francia” ha commentato il marchio a Disclose. Le donazioni sono state prese in carico dalla start-up Done di Lille che percepisce una commissione del 12% sul valore delle scorte recuperate.

La “soluzione” di Kiabi

Kiabi ha dimostrato di sfruttare al massimo la legge in tutte le sue pieghe. Ogni giorno il marchio mette in vendita oltre 800.000 capi di abbigliamento. In base ai calcoli di Disclose, Kiabi ha generato almeno 5,6 milioni di prodotti invenduti nel 2023. Un volume che è quasi raddoppiato in due anni e capace di riempire circa 100 negozi del marchio. Di fronte a questa mole, il gruppo ha trovato una soluzione con l’aiuto di Les Petits Magasins, “negozi solidali” la cui proprietà è riconducibile alla stessa società francese.

Insomma, Kiabi dona a Kiabi, generando agevolazioni fiscali. Nel 2021 Kiabi ha destinato ai Petits Magasins 430.000 capi di abbigliamento per un valore di 1,9 milioni di euro. Disclose afferma che se nel 2023 la mole di invenduto fosse stata la stessa del 2021, avrebbe generato una riduzione delle imposte di quasi 15 milioni di euro. Ma non finisce qui.

Produrre per non vendere?

Kiabi beneficia anche in altro modo della generosità pubblica per rendere ancor più redditizia la sua sovrapproduzione. Per esempio, agevolazioni e contributi per aprire insegne Petits Magasins. Oppure una riduzione dei costi poiché l’onere dello smaltimento dei beni invenduti passa da Kiabi a un altro soggetto, privato o pubblico. Questo perché almeno un capo su cinque donato ai Petit Magasin resta sugli scaffali e, quindi, è prodotto per non essere venduto.

Il “vero usato” va KO

Questo sistema, sottolinea l’inchiesta, si trasforma anche in una temibile concorrenza per il mercato del “vero usato”, quello rappresentato realmente da pezzi di seconda mano. Perché un conto è gestire un invenduto nuovo e pronto da poter mettere in vendita, un altro è dover sostenere le spese per selezionare, smistare e – magari – riparare un capo “davvero” usato. “Inserendo gli invenduti in questo settore, i capi di seconda mano non sono più competitivi”, conferma Emmanuelle Ledoux dell’Institut National de l’Économie Circulaire.

Un boomerang paradossale

A causa di questo meccanismo, le associazioni benefiche e i centri di riciclo sono sommersi da donazioni, al punto che non sanno dove custodirle e che farsene. Alcune hanno bloccato le donazioni, altre sono state costrette a spendere “8.000 euro per seppellire 10 tonnellate di vestiti in discarica” come ha testimoniato Lisa Coinus, ex responsabile del settore tessile in un centro di riciclo ad Arles.

In alcuni casi sono dovuti intervenire gli enti locali per distruggere l’invenduto, generando l’ennesimo effetto paradossale di questa legge. Soldi pubblici per distruggere beni privati prodotti in eccesso: non proprio un successo. Il Governo francese sta cercando di porre un rimedio a tutto ciò. Nel testo della cosiddetta “legge anti-fast fashion si trova, infatti, un comma che elimina la possibilità di ricevere sgravi fiscali in caso di donazioni di beni invenduti a enti di beneficenza. Sarà sufficiente?

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