A proposito di greenwashing: una ricerca dell’istituto FILK smaschera gli slogan di alcuni materiali che dicono di avere prestazioni migliori e di essere molto più ecologici della pelle. Analisi alla mano, risulta che non è così
Per quanto ne dicano dicano i (tanti) produttori, le presunte alternative eco non sono meglio della pelle. E, particolare non indifferente, non sono neanche tanto eco. Questo perché spesso e volentieri i materiali sono composti, in tutto o in parte, da derivati plastici. A mettere in chiaro le gerarchie, prestazionali e di sostenibilità, tra la pelle e le sue imitazioni è uno studio condotto dall’istituto tedesco indipendente di ricerca FILK (Forschungsinstitut für Leder und Kunststoffbahnen). Si intitola “Trend Alternatives for Leather” ed è stato condiviso sulla piattaforma scientifica open source MDPI (Multidisciplinary Digital Publishing Institute). E permette, cliccando qui, di leggerlo nella sua interezza. Noi ci limitiamo a proporvene una significativa sintesi.
Solo la pelle è meglio della pelle
FILK ha analizzato una serie di materiali. “attualmente comunicati sui media come alternativi, sotto vari aspetti, alla pelle”. Obiettivo: “Verificare le proprietà tecniche” di 9 materiali messi a disposizione dell’istituto tedesco da Cotance, la confederazione europea delle associazioni conciarie nazionali. L’analisi è stata condotta realizzando test fisici e chimici anche su di un materiale plastico e, come riferimento, sulla vera pelle”. Le conclusioni sono inequivocabili. Nessuno dei 9 materiali alternativi può dirsi neanche pari alla pelle dal punto di vista della prestazione e, quindi, della durabilità. “In particolare, l’assorbimento del vapore acqueo e la relativa permeabilità hanno ottenuto punteggi significativamente inferiori alla pelle”. La quale, “è risultata superiore anche nei test di durata (resistenza alla flessione e allo strappo)”. E tutto ciò già suona come una sonora smentita di tanti claim e slogan. Ma c’è di più.
Alternative eco?
FILK evidenzia un’ulteriore criticità. Questi materiali “spingono sulla leva del marketing ecologico – spiega Cotance –, pur non essendo assolutamente green”. In altre parole, i produttori delle alternative “non solo imitano la pelle nell’aspetto e nel tatto, ma utilizzano la parola in modo fuorviante e del tutto non trasparente per il consumatore”. Cosa che in Italia è, fortunatamente, diventata fuorilegge in virtù del Decreto entrato in vigore il 24 ottobre 2020. Il problema, però, non è solo questo. Perché lo studio FILK, dopo aver suddiviso le “alternative eco” in 3 gruppi, è giunto a conclusioni (tristemente) drastiche. Il primo gruppo prevede una base prevalentemente naturale “che non richiede l’aggiunta di componenti plastici”. Ma il secondo e il terzo prevedono la presenza “prevalente di componenti plastici” o, addirittura, l’uso “esclusivo di derivati plastici, come PVC o PUR”.
Per esempio
Rilevante il caso della cosiddetta “pelle di cactus”. Si tratta di “un esempio molto significativo – riporta Cotance – perché il materiale è estremamente trending. Alla luce dell’analisi, si è scoperto che contiene al 65% di poliuretano”. In altre parole, questo materiale “risulta essere una miscela di materie prime naturali (fibre di cactus, appunto) e plastica – conclude il comunicato –: tessuto portante in poliestere ricoperto con due strati di poliuretano”.