L’ultimo caso (di una lista lunghissima) è quello di Prada, definito dai media “sandal scandal”: un paio di sandali da uomo che richiamavano i chappal indiani. Il confine tra ispirazione e appropriazione culturale resta molto sottile, ma fino a dove può spingersi?
di Massimiliano Viti
La moda ha (ancora) un problema chiamato appropriazione culturale. Ormai da decenni, periodicamente, c’è qualche marchio che ci casca (inconsapevolmente?), ispirandosi in maniera troppo evidente a usi, stili e codici di culture minoritarie o storicamente oppresse, senza riconoscere il loro significato o senza il consenso delle comunità d’origine.
La musica, per esempio
Il tema riaffiora spesso anche nella musica. Elvis Presley, solo per fare un esempio, è tuttora al centro di un dibattito irrisolto poiché ha raggiunto la fama grazie a un repertorio fortemente influenzato dalla musica afroamericana. Da Elvis ai giorni nostri il passo è brevissimo. Nell’estate del 2022, un concerto del gruppo bernese Lauwarm è stato interrotto dalle rimostranze di una parte del pubblico che non aveva gradito vedere sul palco musicisti bianchi che suonavano musica reggae con acconciature rasta. Ne è scaturito un polverone mediatico che ha sommerso anche la band costretta, pochi giorni fa, a sciogliersi. Nella moda funziona diversamente. Ma continua a capitare.
Moda e appropriazione culturale
Nella moda spesso bastano le scuse. Uno degli ultimi casi di appropriazione culturale ha visto coinvolto il marchio Prada che, durante l’ultima Milano Fashion Week, all’interno della collezione Primavera/Estate 2026, ha presentato un paio di sandali da uomo che richiamavano i chappal indiani, scatenando la reazione delle autorità del Maharashtra. I media hanno etichettato la polemica con il nome di “sandal scandal”. Dopo le proteste, Prada ha ammesso che il design era ispirato al Kolhapuri Chappal e ha dichiarato l’intenzione di “dialogare” con le comunità artigiane locali. Stesso brand e stessa accusa alla fine del 2018. La linea di accessori Pradamalia richiamava il blackface. “Penso sempre di più che qualsiasi cosa si faccia oggi possa offendere – disse Miuccia Prada -. A volte può mancare la generosità, ma d’altra parte, come possiamo conoscere tutte le culture? La protesta cinese, poi i sikh, poi i messicani, poi gli afroamericani. Ma come si fa a conoscere così bene i dettagli di ogni singola cultura quando in ogni Paese possono esserci cento culture diverse? Le persone vogliono rispetto perché ora si parla di appropriazione culturale, ma questo è il fondamento della moda, così come è sempre stato il fondamento dell’arte, di tutto”.
Appropriazione culturale: a che punto siamo?
Prada vuole farci capire quanto sia labile il confine tra ispirazione e appropriazione culturale, soprattutto nel campo dell’arte e della creatività. Infatti, nella moda trovare brand accusati di fare business sfruttando le tradizioni e le culture di comunità emarginate non è poi così difficile. Soprattutto oggi, con il tam tam dei social che non perdona.
Ridotti a caricature
British Vogue ha ospitato il punto di vista di Christian Allaire, indigena e cresciuta come Ojibwe nella riserva della Nipissing First Nation, nel nord dell’Ontario. “Solo raramente ho visto la bellezza del nostro popolo e i loro stili autenticamente riflessi nel mondo della moda; troppo spesso, invece, siamo stati ridotti a caricature” denuncia Allaire, che ha deciso di collezionare prodotti di moda che presentano vari elementi di appropriazione culturale. “Più che trarne semplice ispirazione, i designer – spesso di origine bianca o eurocentrica – hanno a lungo attinto dai gruppi minoritari, adottando i loro manufatti o le loro tecniche poco rappresentate per poi spacciarli come propri. È qualcosa che si può osservare almeno fin dal XVIII° secolo con il movimento della chinoiserie, quando i designer europei rimasero affascinati dai motivi presenti negli abiti tradizionali cinesi”.
Aggirare l’ostacolo
In qualche caso gli stilisti hanno evitato le accuse. “Mi piace lavorare in un modo che riconosca la qualità e la capacità che esistono in altre parti del mondo” ha detto Maria Grazia Chiuri che con Dior ha collaborato prima con Karishma Swali, direttrice della Chanakya School of Craft di Mumbai, e poi con artigiani messicani. È il caso anche di Gabriela Hearst che ha incaricato l’artista Diné Naiomi Glasses di realizzare trench e top eleganti con tessitori nativi americani. Insomma, volendo si può non solo evitare di essere accusati di appropriazione culturale, ma ricevere anche apprezzamenti per propri progetti socialmente inclusivi.
Definire concetti e obiettivi
Gabriella Lojacono, del Dipartimento di Management e Tecnologia dell’Università Bocconi di Milano ha studiato la tematica per poi pubblicare il lavoro “The fine line between localization and cultural appropriation in personal luxury goods: An exploratory study”. Morale: per evitare di essere accusato di appropriazione culturale, un brand deve “definire con precisione il concetto e l’obiettivo della creazione quando la si basa su una cultura diversa dalla propria. I marchi devono chiedersi perché utilizzano nelle loro collezioni elementi culturali che non conoscono, assicurandosi che le loro ragioni siano in linea con il significato e il valore che la cultura di origine attribuisce a quegli elementi. I marchi devono anche evitare di copiare o imitare troppo da vicino una tecnica, perché ciò si trasformerebbe inevitabilmente in una forma di plagio”. E ha fornito tre raccomandazioni fondamentali. Primo: una profonda conoscenza delle culture cui si vogliono ispirare. Secondo: citare esplicitamente la fonte di ispirazione. Terzo: prestare molta attenzione al rispetto, evitando ogni forma di stereotipo e di derisione. Non sembra poi così difficile per marchi così grandi e organizzati. Intanto, però, restiamo in attesa di conoscere il prossimo caso.
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