A cosa serve davvero un Museo della Moda (che in Italia non c’è)

Mentre a Firenze riapre, dopo 4 anni, il Museo della Moda e del Costume di Palazzo Pitti, si riaccende il dibattito sull’assenza in Italia di una struttura e di un progetto che racconti la moda come un fenomeno culturale a tutti gli effetti

di Domenico Casoria

 

Lo scorso luglio ha riaperto a Firenze il Museo della Moda e del Costume di Palazzo Pitti, dopo quattro anni di chiusura, in cui sono state allestite 8 nuove sale. Il percorso espositivo copre tre secoli di moda – dal Settecento alla contemporaneità -, ma la novità principale è che per la prima volta l’organizzazione segue un criterio storico-cronologico e non tematico. Quello di Firenze è a tutti gli effetti un precedente nell’esposizione della moda a livello museale, ma la notizia ha riacceso i riflettori sulla necessità – ormai tutta esclusivamente italiana – di avere un museo della moda principale. E, soprattutto, se è necessario che esista.

A cosa serve davvero un Museo della Moda

Nella lunga diatriba sul se serva davvero un museo della moda si sono infilati giornalisti, storici, politici, accademici. Lungi dal voler esprimere giudizi, dopo 40 anni di favole raccontate male, in Italia la mancanza di un polo che racconti la moda come fenomeno culturale è evidente, soprattutto in confronto agli altri Paesi. Non serve, infatti, scomodare grandi pensatori per capire quanto un’istituzione museale di alto profilo e progettualità – di qualunque tipo sia -, sia necessaria per costruire un’identità condivisa.

La parola “museo” catapulta indubbiamente la moda nella faida fratricida con l’arte, ma come ha sottolineato Matteo Augello in Curating Italian Fashion, edito da Bloomsbury nel 2022, la moda non ha bisogno di giustificazioni intellettuali per esistere. Però, nonostante la moda sia ovunque – in strada, in casa, nei nostri mondi intimi e nelle relazioni con gli altri – in Italia le manca un riconoscimento comune e un luogo che ne raccolga, racconti e metta in mostra il valore culturale.

L’emblematico caso italiano

Il caso italiano è emblematico perché racconta di un Paese che è diviso in tanti piccoli frammenti – stilistici e culturali -, ma che allo stesso tempo ha nel suo DNA un’idea di moda e un concetto di stile che agiscono sottotraccia, rintracciabile secondo alcuni studiosi nel Rinascimento. Eppure, basta affrontare il discorso sulla moda con un qualsiasi non addetto ai lavori per capire le lacune di un Paese che fatica a considerare la moda come il fenomeno culturale per eccellenza.

Certo, l’idea di un museo della moda parte debole in partenza, o forse è già una questione superata, soprattutto se consideriamo che dopo l’avvento di internet la moda ha assunto una miriade di sfaccettature. Oltre all’imprescindibile riassestamento obbligato dai social network e senza considerare la volatilità dei trend e la velocità con cui questi ultimi si alternano in passerella e sui nostri corpi.

Un patrimonio culturale in continua trasformazione

Quindi: che fare del patrimonio culturale che la moda genera nella sua continua trasformazione? La soluzione più ovvia parte ancora una volta dal territorio, dalle associazioni che si occupano di moda e dalle collezioni locali che, rafforzate, diventerebbero una fucina incontenibile. Senza però dimenticare dove stiamo andando a livello nazionale, come Paese, con una prospettiva mirata e un progetto comune. In altre parole, serve un deus ex machina capace di comprendere che un sistema complesso come la moda va capito a fondo, nelle sue pieghe culturali e sociali. Un soggetto capace di far diventare la moda un affare di stato a tutti gli effetti.

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