Business of Fashion valuta con un apposito indice la transizione green che da tempo si presenta come una delle mission di riferimento del fashion system. E scopre che “mentre le aziende parlano di sostenibilità più che mai, le azioni sono in ritardo rispetto agli impegni pubblici”
Ripartiamo dal 42%. In altre parole, dalla percentuale (ne abbiamo parlato qui > LINK) che, secondo ICPEN (International Consumer Protection Enforcement Network) identifica l’attuale ipocrisia green. Il fatto, cioè, che online oltre 4 slogan green su 10 “sono esagerati, falsi o ingannevoli”. Greenwashing, insomma. Lo spazio per fare il passo successivo ce lo offre Business of Fashion, portale di riferimento per la moda e il lusso. Ed è un passo che, però, non ci porta molto distante. Al punto che evoca una necessaria domanda: in ambito green (a 360°) la moda sta effettivamente svoltando o è ancora chiusa in un vicolo cieco?
Svolta o vicolo cieco?
BoF elabora periodicamente un Sustainability Index e dalla sua ultima edizione emerge che “mentre le aziende parlano di sostenibilità più che mai, le azioni sono in ritardo rispetto agli impegni pubblici”. Molta narrativa (a volta ai confini della propaganda), poche azioni concrete. “Il punteggio medio complessivo delle aziende valutate è stato di appena 36 su 100 possibili, con notevoli disparità tra impegno e azione”, scrive BoF. Il quale, poi, entra in dettagli calati sulle dinamiche green di alcuni gruppi di riferimento del lusso e della moda. Kering ottiene 49 punti, Hermès 32, LVMH 30 e Richemont 14. Negli altri segmenti H&M e Inditex con, rispettivamente, 42 e 41, insieme a Nike e Adidas con 47 e 40. La nota metodologia è molto significativa: “Le informazioni su come le aziende pianifichino gli investimenti sono coperte – dice BoF –. Le aziende non accompagnano le loro grandi ambizioni con i dettagli”.
Tra il dire e il fare
“Molti grandi brand hanno promesso di eliminare le sostanze chimiche tossiche o di ridurre le emissioni di gas serra – continua Business of Fashion –. Ma non possono raggiungere questi obiettivi installando finestre a risparmio energetico nelle sedi aziendali di Parigi o New York”. A quella che potrebbe sembrare una frase ironica, fanno seguito alcuni dati. Per esempio, LVMH ha messo in conto capitale per la protezione ambientale 10,7 milioni di euro nel 2019 e 10,4 milioni nel 2020. Da parte sua, Kering ha investito 5 milioni di euro in un fondo incentrato sul sostegno a progetti di agricoltura rigenerativa. Mentre Adidas assegna un budget annuale compreso tra 1 e 4,5 milioni di euro per la spesa in conto capitale per misure di efficienza energetica e generazione di energia rinnovabile.
Il rapporto con i fornitori
Così, per raggiungere davvero gli obiettivi green, ai marchi occorre rendere sostenibilmente efficiente il loro lato manifatturiero. Il quale, però, fa parte della loro galassia alla voce “fornitori”. Con loro, dunque, andrebbero condivisi investimenti di lungo termine in tecnologia e strumenti. Ma, osserva BoF, “i supplier lamentano di essere spesso lasciati soli quando si tratta di pagare gli investimenti. Piuttosto che mettere i fornitori l’uno contro l’altro ogni stagione sul prezzo, i brand dovrebbero stabilire partnership stabili, anche se può voler dire che il costo della produzione aumenti”. Non funziona così per tutti, fortunatamente. Ma tanto basta perché la vera, decisa, diffusa svolta sostenibile ancora non sia avvenuta. E, troppo spesso, gravi in modo disequilibrato a monte della filiera.
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