La recente scomparsa dell’ultimo grande stilista massimalista, Roberto Cavalli, porta a riflettere su dove va la moda. Se prima lo stile permetteva a un cliente di riconoscersi in un marchio, oggi i confini estetici tra i brand stanno scomparendo. Proviamo a capire fino a che punto
Se stessimo leggendo gli exit poll della tornata elettorale più importante dell’anno, i risultati consegnerebbero una maggioranza schiacciante al partito delle vie di mezzo, in coalizione con quello del quiet luxury. mentre segnerebbero una disfatta (quasi totale) per il partito del massimalismo e per quei piccoli partiti ancora troppo giovani o con programmi troppo vaghi. Ma non stiamo parlando di politica. Stiamo parlando di dove va la moda e di una sconfitta tutto sommato prevedibile per i sostenitori degli eccessi e della teatralità. Soprattutto se pensiamo che negli ultimi anni i marchi si sono appiattiti sulla via dell’ordinario, seguendo il sentiment post-Covid, ora aggravato dalla situazione geopolitica.
Dove va la moda
Va detto che ormai non sono tanti i designer che rappresentano questa corrente. Pochi giorni fa è scomparso anche l’ultimo grande massimalista, Roberto Cavalli, re delle stampe animalier. In circolazione rimangono pochi temerari capeggiati da John Galliano (che unisce anche il citazionismo) e Demna Gvasalia, direttore creativo di Balenciaga che riesce ancora a raccontarci storie. Siamo comunque di fronte all’alternanza tra due partiti maggiori – massimalismo vs consuetudine -, ma se prima lo stile permetteva a un cliente di riconoscersi in un marchio, oggi i confini estetici tra i brand stanno scomparendo. Una normalizzazione estetica che è stata, ed è tuttora, la gallina dalle uova d’oro del lusso, impegnato nella ricerca di prodotti comuni per intercettare “il consumatore mediano”.
“Il consumatore mediano”
“Il consumatore mediano” cambia di volta in volta, ma mai si sognerebbe di comprare una Jackie in pelle rosa reinterpretata da Alessandro Michele durante la direzione creativa da Gucci. Certo, esiste un gruppo di designer che ha utilizzato il massimalismo come elemento distintivo. Dallo stesso Demna insieme a Rick Owens, fino a Daniel Roseberry per Schiaparelli e Miuccia Prada, che pure non si può dire sia un’estremista, ma che è riuscita a costruire una sua estetica riconoscibile, attenta alle istanze della società, e che oggi colloca i suoi due brand sul primo gradino tra quelli più amati (e che vendono di più).
Sicurezza estetica
Acquistare un bene rifugio – come una borsa di Hermès, costa, ed è lecito pensare che si scelgano prodotti che restituiscono un’immagine rassicurante. In altre parole, la differenza tra un prodotto (ordinario e fatto benissimo) di Phoebe Philo e uno (straordinario e fatto benissimo) di Loewe la fa il grado di sicurezza estetica che i brand riescono a trasmettere. L’errore principale, tuttavia, è pensare che il massimalismo nella moda sia sinonimo di kitsch e grossolanità, quando invece equivale alla capacità di creare storie in cui noi comuni mortali siamo i protagonisti. Soprattutto, questa ricerca di prodotti comuni tiene fuori una fetta di potenziali consumatori che è già diventata influente e che non si rispecchia più nel sistema tradizionale: la Gen Z.
Non sentirsi riconosciuti
La Gen Z oggi non ha il potere d’acquisto del “consumatore mediano”, ma pure compra e non si sente riconosciuta da nessun brand. Una fetta di giovani nata sui social e cresciuta sui social, e per questo ha la necessità di trovare prodotti dirompenti. Il gradimento social di Alessandro Michele, per esempio, è rimasto alto proprio grazie a quei giovani che sperano di assistere a una evoluzione stilistica anche di Valentino, di cui Michele è diventato da poco direttore creativo. I brand che hanno scelto di aderire al partito delle vie di mezzo continuano comunque a avere uno zoccolo duro di clienti, ma questo modello potrebbe essere a un passo dall’incepparsi. Basta guardare i fatturati per capire che, oltre a un prodotto “sicuro”, serve comunque uno slancio. O almeno un saltello.
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