La moda non rischia e gioca a scacchi con i “vecchi” stilisti

Largo ai giovani? Il nuovo che avanza? Proprio per niente: nel momento di maggior incertezza la moda gioca a scacchi con gli stilisti di lungo corso. Con tanti cari saluti a chi pensa che per innovare bisogna rinnovare. Molto meglio non rischiare e affidarsi all’esperienza. E, forse, non solo

di Domenico Casoria

Gli ultimi, vorticosi, cambi delle direzioni creative delle griffe segnalano una tendenza. Nel momento di maggiore incertezza, la moda sta tornando a scommettere sull’esperienza dei designer di lungo corso, invece, che sui giovani emergenti. Con tanti cari saluti a chi pensa che per innovare bisogna rinnovare. La risposta, più che nel nuovo che avanza, starebbe nella necessità di affidarsi all’esperienza. Per certi versi, non è un segnale incoraggiante.

C’era una volta lo stilista

In un tempo non molto lontano, gli stilisti non disegnavano solo gli abiti. Sceglievano i tessuti, dormivano in atelier, disponevano le targhette sulle sedie degli invitati. Tanto è cambiato e, oggi, a vigilare sul destino di una maison c’è il direttore creativo. Uno che, a grandi linee, non disegna, ma, soprattutto, crea storie che devono mandare in estasi – quando ci riesce – chi guarda. Negli ultimi mesi la moda sembra però essere entrata nel vortice peggiore, complici il rallentamento dei consumi e la Cina che ha smesso di comprare. Dobbiamo fare però un passo indietro. A fine 2022 Alessandro Michele annuncia il suo divorzio da Gucci. È da quel momento che si iniziano a intravedere le crepe del sistema.

La moda gioca a scacchi con i “vecchi” stilisti

Michele è un direttore creativo nel senso letterale. Crea, forse qualche volta disegna, sceglie la musica, maneggia la moda come strumento di racconto. Al suo posto Kering sceglie Sabato De Sarno, un giovane designer che da sempre lavora dietro le quinte. Prima da Prada, poi da Dolce&Gabbana e poi da Valentino. L’approccio di De Sarno sembra utile nel periodo di massimo hype del quiet luxury. Il mese scorso Hedi Slimane, che pare abbia raddoppiato in sette anni le vendite da Celine, lascia. Al suo posto LVMH sceglie Michael Rider. Non un emergente qualunque, ma un designer che per dieci anni ha lavorato dietro le quinte quando Phoebe Philo era direttrice creativa. Qualche settimana fa Filippo Grazioli lascia la direzione di Missoni. Al suo posto Alberto Caliri, che torna dopo aver lavorato per venti anni al fianco di Angela Missoni. Tre indizi fanno una prova.

Tentare di cambiare, comunque

Il modus operandi che i gruppi del lusso stanno sperimentando oggi, è il ritorno alle competenze di chi gli abiti li disegna: a chi conosce il dietro le quinte. Il vero punto però è che per diventare direttore creativo serve tempo. Quando Gucci ha pubblicato “Who is Sabato De Sarno? A Gucci Story” ha costruito a tavolino l’immagine di un direttore creativo nato designer. Una risposta a questo impasse potrebbe arriva da quei brand che negli ultimi anni non hanno subito grossi scossoni, ma hanno puntato su nuovi innesti cercando, comunque, di cambiare qualcosa nel proprio approccio. Per esempio, Miuccia Prada ha capito che per innovare non bastava più la sua visione. Infatti, ora è affiancata da Raf Simons. Domenico Dolce e Stefano Gabbana hanno invertito la rotta, abbandonando l’immagine stereotipata della tradizione siciliana. Infine: da Saint Laurent, Anthony Vaccarello ha targettizzato minuziosamente il suo ideale di donna. Se questa sarà la strada giusta, lo vedremo. Forse, ancora una volta, la risposta sta nel mezzo: prodotti fatti bene, storie raccontate bene e, soprattutto, designer che non si arrendono (o vengono defenestrati) al primo -1 %.

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