Martedì 4 febbraio 2025 sono scattati i dazi americani su tutte le importazioni cinesi. Una decisione che ha e avrà conseguenze sostanziali nella ridefinizione della supply chain globale anche della moda e degli accessori
Massimiliano Viti
Il signor Peng, responsabile delle vendite per un piccolo calzaturificio nel Jiangsu, in Cina, e PVH, colosso statunitense da oltre 9 miliardi di dollari di fatturato che possiede marchi come Calvin Klein e Tommy Hilfiger. Sono i due poli opposti del nuovo mondo che Donald Trump ha deciso di creare imponendo un dazio del 10% su tutte le importazioni cinesi negli USA. La nuova tassa è scattata da martedì 4 febbraio 2025 e minaccia di sconvolgere, con un effetto progressivo, tutte le filiere produttive. A partire da quella della moda.
Un vecchio nuovo mondo
“Un tempo vendevamo circa un milione di paia di stivali all’anno. Il personale, una volta composto da più di 500 persone, è sceso a poco più di 200” racconta alla BBC il signor Peng, 45 anni, che non ha voluto rivelare il suo nome di battesimo. Peng attribuisce questo calo al primo mandato Trump e ai suoi dazi. Oggi Peng si chiede: “Quale direzione dovremmo prendere in futuro?”, palesando tutta l’incertezza su cosa significhi il Trump 2.0 per lui, per i suoi colleghi e per la Cina.
Aziende come Nike, Adidas e Puma hanno già trasferito parte della produzione dalla Cina in Vietnam e in altri Paesi del sudest asiatico. Anche le aziende cinesi si sono trasferite, rimodellando le catene di fornitura, sebbene il Made in China resti importante. Secondo un rapporto di Research and Markets, circa il 90% delle fabbriche di abbigliamento in Cambogia sono oggi gestite o di proprietà cinese. Anche il datore di lavoro di Peng ha preso in considerazione l’idea di spostare la produzione nel sudest asiatico. Ciò salverebbe l’azienda, ma comporterebbe la perdita della forza lavoro, lasciando per strada alcune persone che lavorano nell’azienda da oltre 20 anni.
PVH nella Black List degli “inaffidabili”
Gli affari di PVH sono cambiati in un batter d’occhio. Quando il Ministero delle Finanze cinese ha inserito la società USA in una black list composta da “entità inaffidabili“. Secondo gli esperti, essere aggiunti a questa lista potrebbe impedire a PVH di fare affari in Cina o potrebbe comportare multe o sanzioni. La decisione fa parte di un più ampio pacchetto di misure economiche che il governo cinese ha annunciato come ritorsione ai dazi imposti da Trump. PVH è stato inserito perché avrebbe discriminato e interferito con le operazioni di aziende cinesi hanno riferito da Pechino. L’ipotesi più probabile avanzata dalla CNN è che questa decisione sia un provvedimento contro l’azienda per il suo rifiuto a rifornirsi di cotone dallo Xinjiang.
Economia reale
Quelli di mister Peng e PVH sono due casi diametralmente opposti che ci fanno capire quale è, nell’economia reale, l’impatto della guerra commerciale che Trump ha avviato. Seppur più timidamente di quanto aveva prospettato. È proprio l’estrema incertezza a dominare il mercato. “Creare incertezza è probabilmente parte della strategia del presidente Trump” hanno detto gli economisti di Goldman Sachs. Sebbene il dazio del 10% sia inferiore a quello minacciato da Trump prima delle elezioni presidenziali, investitori e analisti prevedono un effetto a catena nei settori che dipendono dalla produzione cinese.
Cosa succederà negli USA
Negli USA ritengono che l’impatto sarà minore per molti marchi di abbigliamento e maggiore per i rivenditori. “C’è molta incertezza su come stabilire il prezzo dei beni, perché ora c’è una tariffa del 10% in aggiunta a qualsiasi dazio stiamo già pagando, ma cosa accadrà tra un mese o due?” ha detto alla NBC Matt Priest, presidente di Footwear Distributors and Retailers of America, l’associazione dei rivenditori statunitensi. La tipica sneaker Made in China ha già una tariffa del 20% circa, incluso un dazio del 7,5% aggiunto durante il primo mandato Trump. Con un ulteriore dazio del 10%, una sneaker di fascia media potrebbe alla fine avere dai 18 ai 20 dollari in più da aggiungere al costo totale”, ha detto Priest. Secondo il quale solo parte di questo aumento sarà assorbito dai rivenditori e da altre aziende lungo tutta la filiera.
Per cui ci sarà un aumento dei prezzi delle scarpe cinesi vendute negli USA. L’aumento arriverà verosimilmente in agosto/settembre, nel periodo del back-to-school. E graverà su scarpe che vengono acquistate prevalentemente dal ceto medio e dalle fasce economicamente più deboli. Non solo: una riduzione delle vendite, causata dai dazi, potrebbe comportare anche tagli di personale. È una certezza dimostrata da uno studio sugli effetti dei dazi di Trump durante il suo primo mandato. In quel periodo l’occupazione manifatturiera complessiva si è ridotta (anziché crescere), facendo aumentare i costi per le aziende che importano parti e materiali dalla Cina.
Agilità e diversificazione
A Footwear News l’analista di Jefferies Ashley Helgans ha affermato che dopo la pandemia, le aziende sono diventate sempre più agili nel diversificare l’approvvigionamento. Secondo lo stesso analista i marchi che hanno un’esposizione “significativa” all’approvvigionamento in Cina sono, nell’ordine, Skechers (45%), Amer Sports (33%), Nike (18%) e Puma (32%). Il CEO di Puma
Arne Freundt ha detto, in un’intervista ripresa da Bloomberg, che questa percentuale include anche i beni prodotti in Cina per il mercato cinese, poiché per il mercato USA l’import dalla Cina è sceso fino al 10%. Puma si affida sempre più a fornitori in Vietnam e Indonesia per il mercato USA statunitense, spiega Freundt. Oltre agli impatti su abbigliamento e calzature, si prevede che i dazi provocheranno un aumento su altre voci di costo. Per esempio, la logistica, compresi carta e imballaggi, molto richiesti nell’e-commerce.
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