L’evento annuale organizzato da Anna Wintour è ormai molto più simile a una festa a tema che a una fucina di genio e inventiva. E sconta alcuni difetti che, alla lunga, possono affievolire le luci accecanti che, finora, sono state capaci di illuminarlo. Cerchiamo di capire quali sono
di Domenico Casoria
Alla base del Met Gala, nella stretta correlazione con la mostra organizzata dal Metropolitan Museum of Art, c’è sicuramente anche l’idea di disegnare e creare un immaginario della moda che, partendo da un contesto di mecenatismo, fa letteralmente esplodere – oggi, in particolare, sui social – un hype planetario che, a ogni edizione, si moltiplica in modo esponenziale. La mostra organizzata da Andrew Bolton, curatore del Costume Institute parte da un tema che viene scelto insieme ad Anna Wintour (nella foto, tratta dal suo profilo Instagram). Negli ultimi anni però si è diffusa una visione un tantino americanocentrica che tende ad escludere le altre storie della moda in giro per il mondo. Una sorta di mentalità paradossalmente (un po’) chiusa che, alla lunga – e forse già un po’ adesso – rischia di rendere il Met Gala vittima del suo hype.
Eccesso americanocentrico
Intendiamoci, non sarebbe semplice allestire una mostra inclusiva da ogni punto di vista, ma se analizziamo i temi delle passate edizioni, ci rendiamo conto che l’idea che prevale è a senso unico. Nel 2022 per esempio il tema della mostra era “America: An Anthology of Fashion”, mentre nel 2021 “In America: A Lexicon of Fashion”.
Andando a ritroso troviamo quella sul tempo, sul camp (ovvero “artificio” / “esagerazione”), o su Karl Lagerfeld, o quella del 2018 intitolata “Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination” che dialogava tra moda e arte per esaminare il continuo impegno della moda con le pratiche devozionali e le tradizioni del cattolicesimo. Per trovare una mostra inclusiva solo nelle intenzioni dobbiamo arrivare al 2015 quando il tema scelto fu “China: Through the Looking Glass”, incentrata sull’impatto dell’estetica cinese sulla moda occidentale e il modo in cui la Cina ha alimentato per secoli l’immaginazione stilistica.
Dai significati alle logiche
Oltre alla scelta dei temi, che dimostra come ci sia ancora tanto da fare sul piano dei significati, è chiaro che le logiche della mostra si stiano piegando sempre di più a quelle economiche. Di volta in volta vengono scelti brand che sponsorizzano l’evento e che in quel momento sono tra quelli più amati. Quest’anno, per esempio, è stato il turno di Loewe, che fa parte di LVMH, ormai onnipresente sulla scena, dai costumi di Challengers – il film sul tennis di Luca Guadagnino -, alle collezioni in collaborazione con Uniqlo, e che – indovinate -, compare tra i marchi più cool in tutte le classifiche.
Vittima del suo hype
Dal punto di vista della creatività, invece, visti gli abiti scultorei, il Met Gala potrebbe sembrare l’eden, ma se si analizzano questi outfit, è subito chiaro che i due terzi sono riproposizioni d’archivio riadattate per l’occasione. In altre parole: l’evento è molto più simile a una festa a tema che a una fucina di genio e inventiva. In più – e questo è il tema principale – mentre tutto fuori si sta sgretolando, il Met Gala sembra essere la rappresentazione plastica del privilegio soprattutto perché continua ad essere un evento per pesci grossi in cui i designer figli di nessuno faticano ad emergere. Designer che comunque non mancano.
Perché nell’idea di mecenatismo di Anna Wintour, la grande festa newyorkese è l’occasione per creare una rete di connessioni. Infatti, la formula per gli emergenti rimane la stessa. In altre parole: sperare che qualche grande interprete della moda si metta una mano sulla coscienza e decida di non fare razzia, invitando quel giovane designer in cui pure vede qualche flebile possibilità, a cui affidare la creazione di un look stravagante per un VIP minore. Briciole, insomma.