La risposta delle griffe è sotto gli occhi di tutti: siamo aziende culturali. Andiamo oltre il prodotto. Costruiamo narrazioni emozionali che devono creare nuove connessioni. Investiamo in produzioni culturali e allarghiamo i nostri orizzonti ai terzi luoghi. Come e perché ce lo spiega Francesco Morace (Future Concept Lab)
di Massimiliano Viti
Marchi di moda o aziende culturali? Il confine si sta assottigliando sempre di più, a causa dell’evoluzione dei consumi e, di conseguenza, delle stesse maison. Il prodotto griffato non solo ha perso importanza a favore di investimenti maggiormente rivolti verso risonanza emotiva e identità culturale, ma è diventato quasi irrilevante se il brand non riesce a valorizzare la propria base di clienti. La griffe è dunque chiamata ad andare oltre l’estetica, la qualità e la funzionalità del prodotto. Deve ampliare la sua visione e abbracciare la narrazione emozionale in modo da creare delle nuove connessioni o rafforzare quelle esistenti, investendo sulla produzione culturale, piuttosto che appropriarsene. Morale: risonanza emotiva e profondità culturale sono ormai elementi fondamentali per dialogare con i giovani.
Siamo griffe o aziende culturali?
Per esempio, Prada Group, attraverso la sua Fondazione, sta moltiplicando le proprie iniziative culturali. Prada Frames è l’annuale simposio multidisciplinare che vuole approfondire la relazione tra ambiente naturale e design. Miu Miu, altro marchio del gruppo, dà il nome al Literary Club, pensato per sviluppare il dialogo con il pensiero contemporaneo. Notevoli sono anche gli investimenti nel cinema. Prima con i Cinema Godard, le rassegne di film d’essai o cult del passato proiettati (con successo) negli spazi della Fondazione. Ora con la costituzione di Prada Film Fund, fondo annuale di 1,5 milioni di euro per sostenere i giovani registi e il cinema indipendente.
“Prada ha sviluppato l’aura di essere un gruppo vicino al mondo dell’arte e della cultura, mostrando creatività sia sulle passerelle che lontano da esse” osserva Francesco Morace, presidente di Future Concept Lab e FCL do Brasil, che da oltre trent’anni lavora nell’ambito della ricerca sociale e di mercato. “Questa aura è il frutto di un percorso coerente compiuto negli anni e con il quale Prada ha diffuso una conversazione collettiva e un senso di appartenenza a un movimento culturale che il consumatore amplifica sui social. Credo che dietro gli investimenti compiuti ci sia anche la passione personale di Miuccia Prada, con il risultato che prima l’arte era riservata a una élite, mentre ora è per tutti”.
Intercettare il consumatore fuori dal negozio
Oggi, il successo dei marchi non si misura solo nei negozi, alla cassa, ma fuori, nei terzi luoghi, come li ha definiti nel 1989 il sociologo Ray Oldenburg. La casa è il primo luogo, il lavoro è il secondo e gli spazi dedicati alla vita comunitaria sono i terzi. In altre parole, quelli dove è possibile incontrare nuove persone e far parte di una comunità. La moda ha, dunque, imparato a intercettare il consumatore fuori dal negozio, in aree e spazi progettati per la comunità.
Le nuove narrazioni della moda
Ma ci troviamo di fronte a iniziative pensate per elevare il marchio e renderlo più popolare o create per imprimere un’impronta culturale? “Le due cose vanno di pari passo. Dire che è solo una questione di marketing o di posizionamento lo trovo banale. La verità è che si sta estendendo l’orizzonte dei marchi” osserva Morace. “Negli anni scorsi il consumatore era diventato consum-attore mentre ora si è trasformato in consum-autore. Ognuno di noi si sente unico, ci crediamo tutti autori e lo raccontiamo sui social.
Quando facciamo shopping i criteri d’acquisto non sono più solo prodotto, qualità, prezzo ed esclusività. C’è la nostra creatività, perché scegliamo le cose con le quali siamo più in corrispondenza. Per selezionarle attingiamo anche all’arte. Il guardaroba non è più una mera collezione di vestiti, ma di oggetti d’arte. Il consumo, dunque, non è più passivo – conclude Morace – ma attivo. All’atto di acquisto elaboriamo una visione in base alla nostra personalità e attitudine”.
Coltivare connessioni umane e spirituali
La quintessenza di un brand è dunque instaurare un legame emotivo, distintivo e profondo, riconoscendo che impegnarsi nella sensibilizzazione culturale equivale a coltivare connessioni umane e spirituali. Gruppi e marchi investono costantemente in questa direzione. LVMH ha lanciato lo scorso anno 22 Montaigne Entertainment, una nuova divisione dedicata interamente alla creazione di contenuti televisivi, audio e cinematografici per i marchi della sua galassia. Kering ha fondato Saint Laurent Productions, diventata in poco tempo un punto di riferimento nel mondo del cinema internazionale. Per esempio, grazie a progetti brillanti come Emilia Pérez di Jacques Audiard, Parthenope di Paolo Sorrentino e The Shrouds di David Cronenberg.
Valentino ha sostenuto la sezione Forward Future della Beijing Film Academy in occasione del 15° Beijing International Film Festival per approfondire la sua impronta culturale e tradurre il concetto di “moda come narrazione” nel contesto locale. Dior collabora dal 2020 con lo Shanghai International Film Festival (SIFF) in qualità di partner ufficiale. La griffe di LVMH non vede il cinema come un nuovo canale di traffico o un’opportunità di marketing. Lo “usa” per promuovere la tradizione femminista del marchio, concentrandosi sugli aspetti culturali, artistici e valoriali della settima arte da una prospettiva più profonda, riflettendo una responsabilità umanistica universale.
Piattaforme culturali
“Tra le varie arti il cinema è senza dubbio il preferito dai marchi perché ha il vantaggio di essere una piattaforma culturale. Al suo interno convivono la musica, la fotografia, la narrazione con rimandi letterari, etc. Per cui offre molti spazi da esplorare” spiega Morace. Oltre al cinema, che resta il veicolo culturale preferito, le griffe finanziano mostre, appuntamenti culturali, ma anche “viaggi comunitari“. Sono i viaggi organizzati e offerti a clienti e membri della loro comunità. Così come serate di musica e divertimento (A|X Armani Exchange ha firmato un party al Plastic Club di Milano).
Inoltre, ci sono anche alcune griffe che, grazie alle collaborazioni, si sono appropriate di alcuni terzi luoghi. Citiamo la collaborazione tra Missoni e Delta Airlines per personalizzare una serie di accessori da viaggio. Oppure quella di Jacquemus, che ha disegnato i pigiami per i passeggeri di prima classe di Air France. A Roma e Firenze, l’Hotel St. Regis ha una suite arredata con l’iconico stile intrecciato di Bottega Veneta. Per certi versi anche la Milano Design Week rappresenta un terzo luogo per i marchi di moda perché, collaborando con designer, architetti e artisti su installazioni immersive e mostre gratuite, riesce a raggiungere i consumatori senza che ci sia il bisogno di entrare in un negozio.
Perché i terzi luoghi
“Le case di moda si rivolgono sempre più a questa dimensione per poter distinguere e qualificare la propria offerta. Per questo fioriscono collaborazioni con artisti, creativi, anche giovani, che offrono il loro punta di vista”, commenta Morace. “Il tutto alimentato dai giovani, che sono molto più consum-autori delle precedenti generazioni. La partita della moda – conclude Morace – si sta già giocando su un campo più ampio che è quello dell’arte e della cultura. Questo fenomeno si approfondirà e si svilupperà ancora per i prossimi 10-15 anni”.
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