Come sono cambiati la moda, il design e il loro insegnamento in questi lunghissimi mesi di pandemia? Quanto la transizione digitale si sposa con l’artigianalità? Ne parliamo, in questa conversazione, con Massimiliano Giornetti, direttore di Polimoda Firenze
Per Massimiliano Giornetti la moda è “un racconto antropologico”. Una sorta di narrazione della dimensione umana che, per funzionare, richiede una condizione di base: l’autenticità di una visione, di un approccio creativo, di uno stile. Un’originalità che Giornetti ha messo in campo da sempre, nella sua carriera. Da studente del Polimoda, dove si laurea in Fashion Design in collaborazione con il London College of Fashion. Da stilista, alla corte di Salvatore Ferragamo. Prima, dal 2000, nella Divisione Uomo della quale, quattro anni dopo, diventa Direttore Creativo. Poi, fino al 2016, assumendo la direzione stilistica di tutte le linee di abbigliamento della maison fiorentina, inclusa la Divisione Donna e accessori. Successivamente, collaborando al rilancio dell’iconico marchio cinese Shanghai Tang. Infine, riportando (nemmeno troppo metaforicamente) tutto a casa quando, nel 2019, diventa Head of Design Department di Polimoda per poi assumere la direzione dell’istituto a febbraio 2021. Chi meglio di lui, dunque, poteva disegnare l’orizzonte di come sono cambiati, la moda, il design e il suo insegnamento in questi lunghissimi mesi di pandemia? E spiegare come la necessità dell’originalità, creativa e artigianale, confligga con l’attuale, ossessiva, attitudine a essere follower?
La transizione digitale
La pandemia ha spinto quasi all’estremo, per l’imperativo di fare “di necessità virtù”, la transizione digitale (a 360°) della fashion industry. In che modo, secondo lei, questo processo sta influenzando e cambierà l’approccio creativo delle prossime generazioni di stilisti?
La transizione digitale a cui stiamo assistendo nel sistema moda rappresenta per me uno strumento e non un fine. La moda è stata la più agile e dinamica tra le arti intuendo, da subito, la necessità di non fermarsi e di trovare nuove soluzioni alternative e dinamiche. Siamo stati resilienti. Abbiamo capito la necessità di riorganizzarci e l’importanza di cercare nuove opportunità senza perdere identità. Non ritengo, però, che il processo in fieri cambierà l’approccio creativo delle nuove generazioni di talenti, ma al contrario, può rappresentare un forte stimolo ad accelerare quel cambiamento che è divenuto necessario. La moda, la più contemporanea delle forme di arte, è malata e ha bisogno della spinta incondizionata che può solo arrivare dai nuovi talenti, non toccati dalla pressione del marketing e del merchandising.
La narrativa delle griffe, già da prima della pandemia, aveva riportato alla luce una sorta di orgoglio dell’“intelligenza artigianale” da cui nascono molti accessori (alcune maison hanno postato serie di video con cui raccontano le fasi di produzione e scarpe). E, per fare due esempi, Fendi e Dior hanno più volte esaltato i loro “meravigliosi artigiani” (Fendi coinvolgendone di “esterni” nel progetto Hand in Hand). In che modo questa rinnovata attenzione per l’artigianalità si sposa, non solo a livello produttivo, con processi legati all’”intelligenza artificiale”?
La pandemia, nell’isolarci, ci ha riavvicinati. Ci ha fatto ritrovare il valore del neighborhood, l’essere più locali e meno globali. Riscoprire l’importanza della qualità a discapito della quantità. Un ossimoro che getta le basi per un ri-nascimento. Dalla capacità di unire un concetto e l’abilità nel saperlo realizzare si può ripartire di slancio, proprio come nel Rinascimento. Nella mia visione di “periferia” si sommano valori quali dignità, intelligenza, creatività, unicità, ma anche un rinnovato rapporto con la natura che riporta l’uomo al centro del processo creativo. Ritengo questa visione, l’esaltazione della cultura artigianale, indispensabile a sconfiggere la fatica nella moda.
L’attitudine a essere follower
Cosa significa oggi, anche alla luce della pandemia che stiamo ancor vivendo, formare i creativi del prossimo futuro?
Una grande responsabilità. Questa pandemia è una finestra aperta sul cambiamento e l’innovazione. La presa di coscienza che l’industria della moda non potrà più essere più la stessa. La necessità di tornare ad influenzare la società e non esserne influenzati. La moda è un racconto antropologico ed è dalla ricerca stessa della società che si può partire a cogliere opportunità per disegnare uno stile nuovo. La parola “designer” deriva dal latino signum ed esprime la totale abilità di tradurre uno stile attraverso un segno, il disegno.
Qual è, oggi, la più grande sfida formativa in ambito fashion?
Sradicare l’attitudine a essere follower. La mancanza di stimoli ad uscire da una zona di comfort che induce all’omologazione forzata e alla ripetizione di quanto già esiste. Già a livello scolastico c’è una forte tendenza a seguire macro-trend, a manipolare idee e pensieri altrui. È fondamentale partire da una ricerca non basata sulla moda, ma sulla società, l’antropologia, l’estetica e la politica per aprirsi al concetto di “unico”, che rappresenta la visione diversa del singolo.
La moda non può essere solo virtuale
La costante immersione nei social media parte delle nuove generazioni (e non solo…) in che modo ha cambiato “la testa” di chi affronta percorsi di formazione fashion? Apre la mentalità degli studenti o, per assurdo, la ingabbia in nuovi modelli o schemi di pensiero?
La digitalizzazione ha ucciso la curiosità e di conseguenza la creatività. Ha bloccato il flusso del pensiero, riducendo la gestualità a un like. Ci sta allontanando dal corpo e dalla ricerca dello spazio appiattendo così il design. La moda è un corpo che entra in un abito, il passaggio dal livello bidimensionale a quello tridimensionale. La moda non può essere solo virtuale perché vive delle persone e con le persone. Quando manca l’espressione sensoriale viene a mancare uno dei componenti più importanti: quello legato al desiderio.
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