Fa discutere (e molto) la soluzione francese per limitare i danni green del fast fashion e valorizzare le produzioni “a km europeo”. Per molti, imporre una tassa di 5 euro su ogni articolo prodotto dai brand più aggressivi non risolve nulla. Ma, intanto, la proposta è stata approvata dall’Assemblea Nazionale
Antoine Vermorel-Marques, 31 anni, è un giovane parlamentare francese del partito conservatore Les Républicains. Dal 2022 fa parte dell’Assemblea nazionale nella quinta circoscrizione del dipartimento della Loira. Oggi è uno dei simboli dell’anti-fast fashion francese. O, se vogliamo, l’anti-Shein transalpino. A metà febbraio, infatti, ha pubblicato un video-parodia su TikTok che lo ritrae mentre imita gli influencer impegnati a promuovere prodotti fast fashion.
“Così stupende, così di classe!”, esclama il parlamentare mentre mostra un paio di scarpe acquistate presumibilmente proprio su Shein. Per poi aggiungere ironicamente: “Trattate con ftalato, una sostanza che può renderci sterili”. Negli stessi giorni Vermorel-Marques ha presentato una proposta di legge che prevede una tassa fino a 5 euro per articolo a chi compra prodotti da aziende che lanciano sul mercato più di 1000 nuovi prodotti al giorno.
Bonus / malus
Più in generale, Vermorel-Marques vuole colpire le aziende che non creano ricchezza in Francia. “Quelle che non creano posti di lavoro sul territorio europeo e francese, che esportano i loro prodotti al 100% in aereo e non rispettano i nostri criteri ambientali, sociali e talvolta anche sanitari e che fanno concorrenza sleale a tutti i produttori tessili francesi”. Lo stesso parlamentare ha spiegato come dovrebbe funzionare il meccanismo. Mentre un acquirente del fast fashion subirebbe una “malus” di 5 euro per ogni acquisto, chi compra un prodotto rispettoso dell’ambiente e made in France riceverebbe invece un bonus di 5 euro. La proposta è diventata virale in un attimo ed è al centro del dibattito.
Populismo, oppure no?
Qualcuno l’ha definita una soluzione ingiusta perché finirà col gravare sui poveri. Altri l’hanno paragonata all’incentivo offerto a chi compra un’auto meno inquinante. Sheng Lu, professore all’Università del Delaware, avanza dei dubbi sulla facilità di applicazione. Carolyn Mair, psicologa comportamentale specializzata nel settore della moda, pensa che il metodo della punizione non cambierebbe molto i modelli di acquisto delle persone. “I consumatori hanno bisogno di essere educati. Hanno bisogno che si dicano loro le cose che possono fare, piuttosto che quelle che non possono fare. Invece di farli sentire in colpa, hanno bisogno di sentirsi responsabilizzati” dice Mair a Sourcing Journal.
A testa bassa contro il fast fashion
Intanto, in Francia, Paese che ha varato sia la legge anti-gaspillage (che proibisce la distruzione dell’invenduto) sia il “bonus réparation”, (uno sconto in fattura per le riparazioni di scarpe e vestiti), si è scatenata una campagna anti-fast fashion. Culminata, almeno per ora, nella proposta di legge approvata dall’Assemblea Nazionale il 15 marzo e che sarà oggetto di discussione in Senato. La Francia sarà “il primo Paese al mondo a legiferare per limitare le derive del fast fashion più aggressivo”, dice il ministro della transizione ecologica di Parigi, Christophe Bechu.
Misura di compensazione
La misura principale contenuta nella proposta di legge è la sanzione per compensare i danni ambientali della moda superfast. L’importo di tale sanzione potrebbe aumentare gradualmente fino a 10 euro per prodotto entro il 2030, con un tetto massimo del 50% del prezzo di vendita. I contributi saranno ridistribuiti a favore di aziende virtuose, improntate alla circolarità e alle pratiche green, e possibilmente locali. Sarà vietata la pubblicità per i prodotti e le imprese che rientrano nella categoria del fast fashion.
La discussione è in corso
La proposta di legge fa discutere. Non è ancora chiaro quali saranno i perimetri di applicazione e se il prezzo (basso e bassissimo) sarà sufficiente a far scattare le sanzioni e i divieti. Altri chiedono di non penalizzare solo Shein e Temu, ma anche Zara, Primark e H&M. Il direttore generale dell’Alliance du Commerce francese, Yohann Petiot, ha espresso dubbi sul fatto che il testo possa “non centrare l’obiettivo” e avere un impatto sulle aziende nazionali.
Altri gruppi hanno chiesto invano di fissare sanzioni minime e quote di importazione. Per Shein questo testo “penalizza in modo sproporzionato i consumatori più attenti ai costi”. Secondo un portavoce, il numero di referenze “non è un indicatore rilevante” per definire fast fashion. La battaglia sembra essere solo alle prime schermaglie. Anche perché molto dipenderà dai decreti attuativi. (mv)
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