La mutazione genetica di Zara: da fast fashion a fast luxury

Se vi è capitato di entrare in qualunque negozio di Zara nel mondo, avrete notato la mutazione genetica che uno dei primi marchi di fast fashion sta subendo. In verità, parliamo di una mutazione voluta dall’alto, indotta, messa in atto per riposizionare l’insegna e il brand. Basta vedere cosa si sono inventati per i 50 anni. Una campagna video con un fotografo iconico e cinquanta top model. Al punto che oggi, forse, se li chiami fast fashion si offendono…

di Domenico Casoria

 

I cinquanta anni

50 anni festeggiati in pompa magna. Dietro all’obiettivo niente poco di meno che il leggendario Steven Meisel. Davanti, invece, cinquanta top model – da Carla Bruni ad Amber Valletta, da Cindy Crawford a Irina Shayk, da Mariacarla Boscono a Naomi – insomma, il gotha delle passerelle. L’occasione, dicevamo, sono i festeggiamenti per le cinque decadi di Zara, dal primo negozio che Amancio Ortega aprì il 9 maggio 1975 in Calle Juan Flórez, a La Coruña, in Spagna. Ne è passata di acqua sotto i ponti, direbbe qualcuno, soprattutto perché nel frattempo Zara si è trasformato in un colosso che oggi – al netto di qualche interrogativo – possiede l’expertise, la riconoscibilità, l’heritage e pure il budget di una grande casa di moda. Ecco perché la categoria “fast fashion” non è più quella adatta per definirlo.

Cos’è cambiato?

Intanto i prezzi. Un aumento strutturale che ha attraversato tutto il mondo della moda, certo, ma che da Zara è ormai evidente. I motivi? Sostenere la crescita e l’espansione del marchio, si leggerebbe nel glossario economico. Ma il vero segreto di Pulcinella è che Zara ha investito – forse più di ogni altro marchio – nella creatività. E ha investito soldi, non noccioline. L’anno scorso, per esempio, il marchio ha chiamato Stefano Pilati, ex direttore creativo di Saint Laurent, per una collezione di pezzi limitati. Stesso schema: glamour, campagne degne di Avenue Montaigne e prodotti ricercatissimi. Pochi mesi prima, era stato il turno di Rhuigi Villaseñor, ex direttore creativo di Bally, con cui Zara esplorava una volta per tutte il menswear. Ancora prima era toccato a Narciso Rodriguez, in un’inedita collezione di 25 pezzi che qualcuno ancora si sogna. Al netto dei nomi, però, è palese l’avvicinamento di Zara al lusso. Senza considerare che è cambiato l’approccio. Zara ha saputo accogliere tutti gli esuli delle seconde linee, tutti quelli che volevano un prodotto fatto così così, identificativo, gradevole, e pure pretenzioso. E il risultato si vede.

Le domande

Qualcuno potrebbe storcere il naso a questo punto. Ma a conti fatti, che cosa manca a Zara per il grande salto? Perché se la risposta è la sostenibilità, l’Ancien Régime della moda ha venduto l’anima al diavolo anni fa, quando ha deciso di darci dentro con le seconde linee. Guarda caso, prodotte in Turchia, Romania e paesi limitrofi. L’unica grande differenza (su questo) tra Zara e il mondo del lusso è che Zara sulle etichette scrive davvero da dove viene una t-shirt. E la filiera, diranno quelli attenti? Basta scoprire dove si produce (e quanto costa) un vestitino venduto a 2.000 euro per svelare l’arcano. E la manodopera? Indagini sul caporalato. E la trasparenza? Zara ormai accompagna i prodotti con una minuziosa descrizione, le etichette del lusso qualche volta si perdono per strada.

E gli atelier? Quelli mancano davvero, ed è forse l’unico avamposto che Zara non potrà conquistare. In effetti, ci sarebbe un punto su cui Zara e il lusso confluiscono: entrambi non sono inclusivi. Provatevi una L e poi mi direte. Per il resto, la crescita esponenziale di Zara dimostra tutte le falle nel sistema classico, che, guarda caso, oggi piange i clienti. Finiti, indovinate, a comprare da Zara, che ha chiuso il 2024 con ricavi al +7,5%. E infatti i rivali arrancano, trasformati in cattedrali nel deserto dal punto di vista creativo e della sostenibilità. Ma Zara vanta un risultato su tutti: non è più considerato cheap, anzi, pure quelli con la puzza sotto al naso fanno la fila alla casa. Per il resto, oggi faremmo troppi sconti al lusso vero se continuassimo a chiamarlo fast fashion. Diciamo, piuttosto, che si tratta di un lusso wannabe.

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