Cose da dire sulla guerra di Vestiaire Collective al fast fashion

La piattaforma specializzata in second hand ha deciso di bannare una serie di brand per “non essere complice di chi ha un enorme impatto ambientale”. Ma la guerra di Vestiaire Collective fa discutere, perché in molti la ritengono “controproducente”. Di sicuro, questa decisione ha un merito: aver aperto il dibattito su come gestire il peso del fast fashion

 

Nell’ottobre 2022 alcuni dipendenti di Vestiaire Collective si sono recati al mercato di Kantamanto ad Accra, capitale del Ghana. Volevano vedere di persona e capire cosa succede nel più grande mercato di abbigliamento di seconda mano dell’Africa occidentale. Uno dei più grandi al mondo. Qui arrivano ogni settimana circa 15 milioni di capi di abbigliamento usati sotto forme di balle chiamate Obroni Wawu o Dead White Man’s Clothes. Da questo viaggio nascono una serie di scoperte, fatti e considerazioni: obbligate, per certi versi; necessarie, soprattutto.

La guerra di Vestiaire Collective al fast fashion

Il 40% dell’abbigliamento che viene sballato non è rivenduto e diventa rifiuto. Questo viaggio ha evidenziato l’importanza di intraprendere un’azione immediata e radicale sul fast fashion” afferma la nota piattaforma di rivendita del lusso che un mese dopo è passata all’azione iniziando a bandire marchi di fast fashion dal suo business. La decisione è stata presentata come un’operazione di sostenibilità per dare un giro di vite agli sprechi, ma ha sollevato diversi interrogativi sulla sua efficacia. Vestiaire Collective ha eliminato i prodotti Boohoo, Pretty Little Thing, Asos e Shein, che rappresentavano il 5% circa dell’offerta. Altri marchi di fast fashion, come H&M e Zara, invece non sono ancora stati bannati. Insieme a un’agenzia esterna, il portale parigino sta definendo un piano triennale per stabilire i criteri che i brand dovranno rispettare affinché i suoi prodotti siano ammessi sul sito. Chi non li rispetterà non sarà più ospitato sui suoi scaffali virtuali.

Nessuna complicità

Dounia Wone, Responsabile Sostenibilità del sito di rivendita ha detto: “Non vogliamo essere complici di questo settore (il fast fashion, ndr), che ha un enorme impatto ambientale e sociale”. Vestiaire Collective, che tra i suoi investitori ha anche il conglomerato francese del lusso Kering, ha dichiarato che questa decisione non equivale a lavarsi le mani per quello che accade a Kantamanto. Lavorerà per trovare soluzioni come “indossare, riparare, riciclare, rigenerare e donare in modo costruttivo”.

Ma è una guerra utile? 

Non tutti approvano e battono le mani alla decisione di Vestiaire Collective. Al punto che qualcuno afferma che questa decisione è addirittura controproducente. Come Justine Porterie, Green Manager di e-tailer inglese dell’usato. “Vietare il fast fashion – dice -andrebbe contro la nostra missione di alternativa credibile all’acquisto di abiti nuovi”. Mentre un portavoce di Vinted (altra piattaforma di rivendita) sintetizza a Vogue: “Escludere il fast fashion non impedisce alle persone di acquistarlo”. Brett Staniland, un creatore di moda sostenibile che in passato ha collaborato con Vestiaire Collective, sostiene che “vietando il fast fashion i consumatori vengono indirizzati verso le piattaforme di seconda mano dei marchi del fast fashion, con la possibilità di restituire il denaro a imprese che non vogliamo sostenere“. Il riferimento è al fatto che Pretty Little Thing, Shein e Zara hanno già lanciato piattaforme di rivendita di proprietà. Il dibattito è aperto. Quanto meno la decisione di bannare il fast fashion da parte di Vestiaire Collective è servita a questo. (mv)

Foto tratta da deadwhitemansclothes.org

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