Li accusano, ma vendono: cosa insegnano i casi di Shein e H&M 

L’ultrafast fashion di Shein fa discutere, ma cresce a una rapidità inaudita: in 3 anni è passato da 3 a 30 miliardi di GMV. Gli svedesi di H&M cercano di migliorare la propria reputazione sostenibile, ma subiscono due cause per greenwashing mentre il fatturato comunque cresce. Più li accusano, insomma, più vendono. Perché? 

 

Il 2022 è stato l’anno in cui in molti, anche a livello istituzionale, hanno iniziato a prendere un po’ più sul serio il greenwashing. Ma è stato anche l’anno del boom di Shein. E non solo. Così, mentre pare crescere (almeno così ci dicono report e sondaggi) la sensibilità verso la sostenibilità, non si arresta la corsa di certe insegne del fast fashion. Della serie: li accusano, ma vendono. Un paradosso? Forse sì, forse no. Sicuramente, qualcosa.

Li accusano, ma vendono

Per Bank of America, Shein, società specializzata in ultrafast fashion con sede a Guangzhou e 45 milioni di clienti online, raggiungerà un valore della merce lorda di 28,4 miliardi di euro entro la fine dell’anno. Così, diventerà il numero uno del mercato a tempo di record. Shein, infatti, ha impiegato 3 anni per passare da 3 a 30 miliardi di dollari di GMV (Gross Merchandise Value), una progressione che Inditex, la casa madre di Zara, ha compiuto in 20 anni. Non solo. Il sito money.co.uk ha rilevato che Shein è il marchio di moda più cercato a livello globale: è in cima alle ricerche in 113 Paesi. Risultati che stridono con le continue e pesanti accuse sul suo operato.

Tre accuse 

La prima proviene da Bloomberg. Shein utilizza cotone proveniente dallo Xinjiang per i capi di abbigliamento esportati negli Stati Uniti. Ma finora è sempre riuscito ad eludere i controlli ufficiali. Come? Le sue singole spedizioni ai clienti sono al di sotto della soglia (800 dollari) che fa scattare i controlli e l’eventuale segnalazione alla US Customs and Border Protection. La seconda è di Greenpeace, che ha pubblicato un’indagine secondo cui il 15% dei capi analizzati registra quantità di sostanze chimiche nocive superiori ai limiti consentiti in Europa. La terza arriva dalla rete televisiva britannica Channel 4 che ha mandato in onda un documentario intitolato “Untold: Inside the Shein Machine”. In pratica, i lavoratori delle fabbriche di Guangzhou, terzisti di Shein, sarebbero sottopagati (4 centesimi per ogni capo prodotto), con detrazioni per gli errori commessi durante turni di lavoro da 18 ore al giorno, 7 giorni su 7, con una sola giornata di riposo al mese. Dopo questo documentario, i Rolling Stones hanno richiesto di rescindere l’accordo di merchandising con Shein sottoscritto 7 giorni prima.

La difesa di Shein 

Shein ha dichiarato che investirà 15 milioni di dollari per “miglioramenti fisici” nelle fabbriche dei suoi fornitori nei prossimi 3/4 anni. Secondo gli esperti, si tratta di un buon inizio, ma non sufficiente a correggere lo squilibrio insito nel suo modello commerciale. Di fatto, l’azienda sta facendo ricadere la responsabilità sui fornitori invece che assumersela direttamente, in virtù di decisioni prese internamente. Ma, come dimostrano le vendite, chi cerca di spendere il minimo possibile per vestirsi se ne infischia di tutto: guarda solo il prezzo e l’estetica del capo.

Le cause contro H&M 

H&M deve affrontare due cause di greenwashing negli USA. Entrambe con la stessa motivazione: prezzi più alti per prodotti etichettati “green”, ma in modo fuorviante. Il colosso svedese, infatti, sta cercando di migliorare la propria immagine sostenibile. In poco tempo, infatti, ha stretto una partnership con un fornitore di lana per implementare il progetto di ripristino della biodiversità e l’avvio della gestione rigenerativa del territorio. Poi, ha firmato un maxiaccordo per l’acquisto di energia rinnovabile.

Paradossalmente, però, una delle due cause con cui deve fare i conti riguarda Conscious Collection, la sua (presunta) vetrina sostenibile, ora accusata di greenwashing. Su H&M, poi, pendono anche problemi di bilancio che si riflettono sul piano della responsabilità sociale. Deve ridurre i suoi costi operativi di 190 milioni di dollari l’anno e, per riuscirci, taglierà circa 1.500 posizioni lavorative chiudendo il 2022 con 89 nuovi negozi aperti, ma 254 chiusi, senza contare quelli in Russia, Bielorussia e Ucraina.

Infine, la sua presa di posizione contro il cotone dello Xinjiang ha messo gli svedesi in cattiva luce sul mercato cinese, perdendo volumi di vendite e incassi. Il che non gli ha impedito, comunque, di chiudere il 2022 a quota 20,5 miliardi di euro, il 6% in più sull’anno precedente. Insomma, tanti mal di pancia, ma, complice anche l’inflazione, un bilancio che in tanti nemmeno riescono a sognare. Morale: continueranno ad accusarli, loro continueranno a vendere.

Leggi anche:

 

 

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER