Il problema green della moda e le 6 cose che dovrebbe fare

The European House – Ambrosetti pubblica lo studio Just Fashion Transition e ribadisce che il problema green più grave della moda è “la mancanza di dati univoci sugli impatti ambientali e sociali”. Il caos e l’autoreferenzialità, insomma, generano greenwashing. Come uscirne?

 

La moda ha un problema green. Ormai è evidente. Ormai lo sanno (e lo sappiamo) tutti. E questo problema ha due facce. La prima, quella in piena luce, è segnata da una cicatrice profonda: il greenwashing. Quella meno visibile, ma ugualmente preoccupante, è rappresentata dalla scoperta (sempre che lo sia) che “mancano dati univoci sugli impatti ambientali e sociali del settore moda”. A dirlo è The European House – Ambrosetti che a Venezia, a fine ottobre 2022, ha presentato i risultati dello studio Just Fashion Transition, indicando le 6 possibili strade per risolvere questo problema.

Il problema green della moda

Lo studio nasce da una ricerca che “ha valutato le performance economico-finanziarie di 2.700 aziende della catena di fornitura e la sostenibilità di 167 aziende della filiera italiana”. Non solo: “Ha analizzato gli strumenti di gestione della sostenibilità delle 100 più grandi imprese europee”. Tra i vari riscontri, spicca questa sottolineatura, molto significativa: “Oggi è possibile solo basarsi su stime che producono risultati molti diversi tra loro. Per esempio, non si conosce il dato sulle emissioni climalteranti generate dal settore moda, che si attestano tra il 2 e l’8,1% delle emissioni globali. Così come il dato dei consumi idrici, dove la stima più alta è tre volte superiore alla più bassa (215 contro 79 miliardi di metri cubi). Se poi si scende nel particolare per verificare il consumo d’acqua necessario a produrre un paio di jeans, la differenza supera le 5 volte (20.000 contro 3.781 litri). In Europa, dove sono stati costruiti set consolidati, i dati ambientali sono molto più affidabili e dimostrano che il 75% delle esternalità negative è prodotto fuori dall’Unione europea”. Bene. Anzi, malissimo. Quindi: che fare? Per Ambrosetti, le strade da percorrere per uscire da questo vicolo cieco sono sei.

Le 6 cose che dovrebbe fare la moda

1 – Vanno adottati in modo anticipato “gli strumenti volontari e obbligatori che l’UE sta introducendo per sperimentare e fornire feedback e raccomandazioni per migliorarne l’applicazione. Le aziende devono essere costantemente aggiornate sull’evoluzione delle politiche europee e di quelle delle principali istituzioni mondiali sul tema”.

2 – “I governi devono definire un’agenda annuale identificando le priorità, gli attori coinvolti e le principali linee d’azione”. E devono orientare “i finanziamenti pubblici verso le PMI cercando di favorire la partnership con le istituzioni finanziarie private”.

3 – “Le alleanze tra i diversi attori della filiera saranno cruciali. Meglio: la creazione di comunità professionali, oltre a superare le barriere al finanziamento dell’innovazione, dovrà contribuire a diffondere buone pratiche e attività di advocacy”.

4 – Per risolvere la mancanza di dati omogenei e condivisi “serve un osservatorio permanente, realizzato in collaborazione con le associazioni di categoria e con le alleanze industriali”. Obiettivo: “Raccogliere, sintetizzare e divulgare i dati sul settore”. Ambrosetti “propone di concordare le metodologie di calcolo e avviare la raccolta dei dati su un set di dati minimi”. Per esempio. “Salari minimi, consumo di acqua, uso di prodotti chimici, emissioni di gas serra, materie prime riciclabili”.

5 – Occorre “tradurre la preoccupazione verso l’ambiente dell’opinione pubblica in comportamenti coerenti da parte dei consumatori”. In altre parole: “L’apertura all’esterno attraverso eventi dedicati alle tematiche sociali e ambientali”. E anche “L’utilizzo del linguaggio universale della musica e l’integrazione dei programmi scolastici e universitari per promuovere un cambiamento culturale esteso”.

6 – L’ultima raccomandazione suggerisce “la necessità di reinvestire quote fisse dei margini dei brand per favorire la scalabilità dei modelli di business circolari e la condivisione delle migliori pratiche nel settore”. Questo perché “la transizione sostenibile sarà facilitata se le imprese della filiera del lusso, presenti essenzialmente in Francia e in Italia, costituiranno un’avanguardia in grado di fare sistema e di dettare l’agenda nei tavoli di lavoro europei e delle istituzioni internazionali”.

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