La sostenibilità e la sua verità: quando i nodi vengono al pettine

Dopo tanto costruire castelli di marketing, la presunta verità su come si valuta e promuove l’impatto green di materiali e prodotti genera dubbi, domande e inchieste giornalistiche. Un piccolo tsunami di opportuno scetticismo che, per esempio, sta mettendo davanti alle proprie responsabilità uno strumento “molto quotato” come l’Higg Index, accusato nella migliore delle ipotesi di autoreferenzialità e che, non solo per questo, è stato sospeso dalla Sustainable Apparel Coalition: cioè, da chi l’ha creato

 

La verità assoluta non esiste. Esiste quella relativa. Per la sostenibilità, almeno ad oggi, siamo di fronte allo stesso identico archetipo. Non c’è infatti un disciplinare, un protocollo sulla base del quale poter indicare, e quindi attestare, in maniera certa e inconfutabile se e come un prodotto sia sostenibile. Tradotto: esistono solo le buone pratiche di sostenibilità. In altri termini: le migliori possibili e quelle che, in questo senso, subiscono un costante aggiornamento. Morale di tutto? Sotto i colpi di studi indipendenti e dei media stanno cadendo tutti coloro che fino adesso avevano invece asserito di aver scritto le tavole della Legge Green. Spesso, se non sempre, pro domo loro. Il sospetto, infatti, è che queste tavole siano state redatte ad hoc per sfruttare la crescente richiesta di prodotti sostenibili da parte dei consumatori. Per esempio, come nel caso della polemica (in corso) che vi stiamo per raccontare.

La sostenibilità e la sua verità impossibile

Se qualche anno fa erano stati pochi coraggiosi studiosi ad avanzare dubbi sui vari indici che promettevano la sostenibilità assoluta, nelle ultime settimane abbiamo assistito a una sorta di ribellione di massa che ha puntato il dito contro l’Higg Index. La prima versione di questo indice fu rilasciata nel 2011, ma solo col passare degli anni, ci si è accorti delle sue grandi lacune. Tra i vari articoli in circolazione, molto completo è quello intitolato “Was It Polyester All Along?”, scritto il 1° ottobre 2020 dall’analista indipendente Veronica Bates Kassatly. Oltre a ripercorrerne le tappe storiche dell’Indice, ne vengono segnalati i dubbi e le mancate risposte. Per esempio: come mai l’impatto della seta per chilo è 681, quando quello del poliestere è solo 44? Ancora: perché l’Higg Index prende come riferimento il poliestere europeo quando il 94% della fornitura globale proviene dall’Asia?

Richieste e ulteriori dubbi

Tempo una settimana e arrivò, forte e trasversale, la richiesta del mondo della concia di sospendere l’Higg Index più o meno per lo stesso motivo relativo alla seta. Cioè: i materiali naturali come lana, pelle, seta, cotone, sarebbero meno sostenibili di quelli sintetici come il poliestere. Il che, già così, suona piuttosto controintuitivo. Sotto accusa, dunque, è finita la SAC – Sustainable Apparel Coalition che ha creato e gestisce l’Higg Index e a cui aderiscono aziende del calibro di Amazon, H&M, Inditex, Kering, Mango, Nike, Puma e tante altre.

Illusione di sostenibilità

“Il danno che Higg arreca presentando un’illusione di sostenibilità supera di gran lunga qualsiasi possibile beneficio che dichiara” sintetizza CMF – Changing Markets Foundation nello studio Licence to Greenwash (marzo 2022) col quale afferma come 10 dei più importanti regolamenti e schemi di certificazione presi come riferimento per stabilire il livello di sostenibilità di un prodotto o di una pratica, in verità, consentano “un sofisticato greenwashing su vasta scala”. CMF conclude che, anche grazie a questo, l’impatto ambientale del settore moda è aumentato, anziché diminuire. Perché l’uso di fibre di poliestere, la dipendenza dai combustibili fossili e la sovrapproduzione sono raddoppiati. Non a caso gli inglesi di CMA – Competition and Markets Authority sono giunti a dichiarare che fino al 40% delle affermazioni ecologiche online potrebbero essere fuorvianti.

L’ultima polemica

La scintilla che incendia il movimento “anti Higg Index” arriva il 12 giugno 2022 con un articolo del New York Times dal titolo How Fashion Giants Recast Plastic as Good for the Planet. L’inchiesta mette in dubbio l’Indice, evidenziandone la sua autoreferenzialità. Per esempio, si può leggere che le alternative vegane alla pelle sono una trovata di marketing. Pochi giorni dopo l’autorità norvegese dei consumatori (NCA – Norwegian Competition Authority) banna l’Indice. E ancora: la Natural Fibers Alliance ne chiede la sua sospensione. Ed ecco che, il 27 giugno scorso, SAC ha sospeso l’Indice perché è diventato necessario “comprendere meglio come comprovare le affermazioni a livello di prodotto con dati affidabili e credibili”, dice la CEO Amina Razvi. Il che, se non è una (tardiva) ammissione di colpa, poco ci manca.

Tante parole, solo parole

Vogue Business, a sua volta, sposta il tiro su costumi da bagno e sneaker in plastica riciclata che, scrive, “non sono così green come pensi”. In pratica: i brand spendono per lanciare un prodotto in plastica riciclata, ma spesso non si sforzano allo stesso modo per abbinarlo con un’effettiva riduzione del consumo totale del materiale inquinante. “Quando una vasca da bagno trabocca, non si corre a prendere lo straccio. Prima si chiude il rubinetto” ha spiegato a Vogue Jackie Savitz, responsabile dell’organizzazione no-profit Oceana. Insomma: ci troviamo di fronte a una sostenibilità di facciata e a scopo di lucro.

Meglio consumare meno

Per ora, dunque, l’unica via green che mette tutti d’accordo, è quella di consumare meno. Per farlo, occorrono prodotti durevoli, con materiali di grande qualità come la pelle proveniente da rifiuti dell’industria alimentare, privi di plastica e con una manifattura eccellente. E che possono essere riparati per poter durare più a lungo possibile. In questo senso, potremmo definirla una (vera) sostenibilità senza tempo.

Leggi anche:

 

 

 

 

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER