Pericolo pubblico numero 1: tutti contro il greenwashing

La lotta contro il greenwashing e le sue fuorvianti dinamiche di marketing si alza di livello e mette nel mirino la moda con azioni sempre più diffuse e ad ampio raggio. Azioni che non coinvolgono solo brand e retailer, ma anche fondi finanziari e società che ne valutano (come?) l’impatto green

 

Tutti contro il greenwashing. Lo vogliono istituzioni, associazioni ambientaliste, aziende che investono per perseguire una sostenibilità autentica e, ovviamente, i consumatori. Non lo vuole solo la moda, perché finora è la finanza il settore in cui la repressione sembra essere più incisiva. Già: la finanza. Infatti, la U.S. Securities and Exchange Commission sta esaminando i fondi d’investimento che dichiarano punteggi elevati in merito alle metriche ambientali, sociali e di governance. In altre parole: le ESG (Environmental, Social and Governance).

Il lato oscuro della finanza

“Coloro che offrono investimenti devono divulgare in modo completo ed equo ciò che vendono e agire coerentemente con tali divulgazioni”, si legge in una dichiarazione della Commissione. Di pari passo, l’Unione Europea ha redatto la Corporate Sustainability Reporting Directive, che dal giugno 2023 obbligherà tutte le “grandi” società che operano nell’UE, o che possiedono titoli quotati nell’area, a produrre nuovi e ampi rapporti sugli effetti sull’ambiente della loro attività e delle loro società madri. Una normativa antigreenwashing che sta suscitando allarme a Wall Street, visto che comporterebbe una grande mole di lavoro anche per le maggiori banche di affari statunitensi.

Tutti contro il greenwashing

Se si muove la finanza vuol dire che il greenwashing è davvero un pericolo. E anche nella moda, considerata come uno dei peggiori settori in fatto di impatto climatico, si susseguono iniziative per combatterlo. L’ultima in ordine di tempo ha visto la Competition and Markets Authority (CMA), l’organismo di controllo della concorrenza del Regno Unito, avviare un’indagine sulle affermazioni sulla sostenibilità dei marchi di fast fashion Boohoo, Asos e dell’etichetta di abbigliamento George della catena di supermercati Asda. Questa decisione pone la moda come primo obiettivo nella repressione del greenwashing.

La moda nel mirino

Lo scorso giugno, l’autorità norvegese dei consumatori (NCA – Norwegian Competition Authority) ha vietato al marchio Norrøna e al colosso svedese del fast fashion H&M di utilizzare l’indice Higg per qualificare le etichette dei propri prodotti, ritenendolo fuorviante. Non solo. L’Unione Europea sta preparando una serie di atti legislativi con l’obiettivo di frenare l’impatto ambientale dell’industria della moda e garantire che le informazioni “verdi” siano comprovate da fatti e siano credibili.  Niente di più necessario, visto che, attraversando l’Atlantico, a luglio negli Stati Uniti è stata intentata un’azione legale collettiva che accusa sempre H&M di “marketing sostenibile fuorviante“.

Il greenwashing è ovunque

Il greenwashing è ovunque ed è, purtroppo, molto efficace soprattutto su chi afferma di essere preoccupato per l’ambiente. Il New York Times scrive che la società di consulenza britannica Behavioral Insights Team ha condotto un’indagine per capire quanto siamo tutti vulnerabili al greenwashing. In Australia, sono state mostrate tre pubblicità di tre società energetiche fittizie a 2.400 persone. Il primo spot pubblicizzava le credenziali green di un’azienda. “I nostri uffici sono verdi”, recitava l’annuncio, senza entrare nel merito e tralasciando il fatto che l’azienda stessa produceva e vendeva combustibili fossili.

Il secondo spot chiedeva allo spettatore “Come puoi risparmiare energia?” e offriva un calcolatore del “carbon footprint”, il parametro utilizzato per stimare le emissioni gas serra causate da un prodotto, un servizio, un’organizzazione, un evento o un individuo. Questo spot non conteneva alcuna informazione sull’azienda.

Il terzo metteva in evidenza come l’impresa sponsorizzata avesse creato posti di lavoro, senza alcun riferimento di matrice ambientale. Ebbene: il 57% delle persone coinvolte nel sondaggio è caduta nel tranello e ha dichiarato che le aziende (fittizie) reclamizzate nelle prime due pubblicità avevano “credenziali green” più solide rispetto alla terza. “Si presume che tutti siano razionali, che un consumatore istruito interroghi il mercato, ma non è così”.

Far west

Da settembre 2021 ad aprile 2022 sono pervenute a CMA 21 denunce di greenwashing. Cinque riguardavano marchi di moda. “Con le class action di matrice statunitense sempre più diffuse nel Regno Unito e in Europa – commenta Ciara Cullen, partner del gruppo RPC –, le aziende non solo dovranno affrontare un maggiore controllo normativo. Potrebbero anche trovarsi a dover pagare somme significative ai clienti scontenti”. Accadrà? (mv)

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