Contraddizione Gen Z: ambientalisti drogati di fast fashion

I cosiddetti “giovani consumatori”, ormai riferimento a qualsiasi livello della fashion industry, hanno un problema. Un grosso problema. Sono ambientalisti dichiarati e allo stesso tempo drogati di fast fashion. Al punto che negli USA è nata la Fast Fashion Confessional Hotline. Consapevoli di essersi persi dentro il labirinto di questa contraddizione, come ne usciranno?

 

Pochi mesi fa negli Stati Uniti è stata istituita la Fast Fashion Confessional Hotline. È una linea telefonica per aiutare le giovani generazioni a disintossicarsi dal fast fashion. L’iniziativa è firmata ThredUp, specialista del second hand in collaborazione con una delle star della serie Stranger Things, Priah Ferguson. Non è una scelta casuale o, tantomeno, provocatoria. Infatti, ThredUp, in collaborazione con GlobalData, ha condotto un sondaggio secondo cui il 33% degli acquirenti della Gen Z si descrive come un “drogato di fast fashion”. È la contraddizione condita di autoconsapevolezza di chi, nonostante dichiari di avere a cuore l’ambiente, non riesce a smettere di acquistare moda a basso costo.

Ambientalisti drogati di fast fashion

“I consumatori non sono, non possono e non dovrebbero essere la forza trainante per cambiare completamente un settore. Finché è facile, veloce ed economico acquistare moda, l’aspetto della sostenibilità dell’offerta sarà sempre una scelta secondaria”, dichiara al New York Times Michael Schragger, fondatore della Sustainable Fashion Academy di Stoccolma. In effetti, nonostante il consumo consapevole cresca, gli acquisti di abbigliamento sono quintuplicati dal 1980 e un indumento è indossato in media solo 7 volte prima di essere rivenduto o gettato in discarica. In parte, ha affermato Schragger, ciò è dovuto al fatto che le aziende non sono obbligate per legge a raggiungere gli obiettivi di responsabilità sociale e aziendale.

133 miliardi nel 2026

Oggi il mercato del fast fashion, secondo stime riportate dalla società di analisi e ricerche Statista, vale poco meno di 100 miliardi di dollari a livello globale. Dovrebbe raggiungere i 133 miliardi entro il 2026. “Le vendite del fast fashion sono cresciute di oltre il 20% negli ultimi tre anni, ma anche i nuovi player online stanno guadagnando terreno. Nei prossimi 18-24 mesi, tuttavia, tutto il comparto moda si troverà di fronte a uno scenario complesso”, spiega a Il Sole 24 Ore Gemma D’Auria di McKinsey. Con l’inflazione galoppante e le bollette in aumento, i consumatori hanno due strade. La prima: decidono di spendere un po’ di più per prodotti duraturi. La seconda: si rivolgono alle catene della moda usa e getta. Queste ultime potrebbero, dunque, essere favorite dalla situazione economica attuale, ma devono fare i conti con l’accresciuta sensibilità verso il consumo consapevole.

Fast fashion e sostenibilità andranno mai d’accordo?

I marchi del fast fashion affermano di fare sforzi crescenti per diventare più sostenibili. Zara, che secondo alcune stime produrrebbe 450 milioni di capi all’anno, sta sperimentando materiali di laboratorio a zero emissioni di carbonio che imitano la seta e il cotone. Sta perfezionando algoritmi di intelligenza artificiale capaci di individuare in anticipo ciò che i clienti desiderano, in modo da poter produrre in maniera più mirata, eliminando resi e sprechi. H&M, che da anni dà la possibilità di portare in negozio capi e tessuti da riciclare, alla fine del 2021 ha lanciato un nuovo strumento (Circulator) che entro il 2025 dovrebbe permettere la “conversione” dell’intera produzione del gruppo in ottica circolare.

Un’altra faccia della contraddizione

Ma il discorso, se possibile, è ancora più complicato. Lo sintetizza Claire Bergkamp, direttrice dell’organizzazione no-profit Textile Exchange. “Attualmente – dice, i marchi di moda che stanno davvero cercando di essere migliori dal punto di vista della sostenibilità spesso si sentono puniti commercialmente per averlo fatto”. Morale: “Hanno difficoltà a competere finanziariamente con coloro che non prendono le stesse decisioni”. Quindi: potrebbero ritenere inutili gli investimenti green generando un loop infinito di contraddizioni e cortocircuiti. (mv)

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