Tre indizi fanno una prova: gli studi di Bain, ThredUp e Vinted confermano che, a più livelli di consumo, esiste un evidente divario tra atteggiamento e comportamento quando un consumatore deve scegliere se acquistare o meno un capo di abbigliamento, una scarpa, una borsa o chissà che altro. Alla fine non è se essere sostenibili la domanda che sbaraglia ancora il campo ma: “Quanto costa?”
Siamo tutti disposti ad essere più attenti alla sostenibilità finché esserlo non intacca il nostro portafoglio. Forse non è una frase molto elegante, e sembra anche piuttosto venale, ma è difficilmente confutabile. Soprattutto nel mondo della moda. E se tre indizi fanno una prova, gli studi di Bain, ThredUp e Vinted confermano la tesi.
Sostenibili con il portafoglio degli altri
Il report How Brands Can Embrace the Sustainable Fashion Opportunity, pubblicato da Bain & Company e da WWF Italia, ci dice che solo il 15% dei consumatori dà effettivamente priorità alla sostenibilità quando fa acquisti di moda. Il divario tra atteggiamento e comportamento è ancora più ampio ed evidente se pensiamo a tutte le giovani generazioni che si dichiarano attente all’ambiente, ma che poi, nei fatti, contribuiscono con i loro acquisti alla rapida ascesa di Shein, Temu e altri marchi del fast e dell’ultrafast fashion.
Se spostiamo l’attenzione sul settore della rivendita, vediamo che accade esattamente la stessa cosa. È un mercato che si sta sviluppando non tanto per una accresciuta sensibilità verso l’ambiente, quanto per l’aumento dell’inflazione. Il second hand offre un risparmio per chi acquista e un guadagno per chi vende. E soddisfa ugualmente la voglia di shopping compulsivo del consumatore.
177 miliardi di dollari
Il settore del pre-loved, cioè quello dell’usato garantito, ha raggiunto i 177 miliardi di dollari di vendite globali lo scorso anno, secondo il Resale Report 2023 pubblicato da ThredUp. Ciò equivale a una crescita del 28% rispetto al 2021. Lo studio si basa su ricerche e dati GlobalData, società di analisi del commercio al dettaglio, e prevede che questo settore raddoppierà fino a raggiungere 351 miliardi di dollari entro il 2027.
È innegabile che ci sia una maggiore consapevolezza della sostenibilità, e che probabilmente crescerà col passare degli anni, ma lo studio rivela che nel 2022 il mercato si è ampliato soprattutto a causa dell’aumento dell’inflazione. Anche per i marchi di moda e del lusso il paradigma non cambia. È vero che sono più attenti all’impatto ambientale, ma sono ancora più attenti alle loro entrate. Il mercato della rivendita permette di raggiungere contemporaneamente i due obiettivi ed è per questo che molti brand stanno cominciando a presidiarlo.
I dubbi sono tanti
Se l’ascesa dell’usato e di altri modelli commerciali “circolari” produrrà anche una riduzione del numero di nuovi articoli prodotti o della domanda di nuovi beni da parte dei consumatori è ancora una questione aperta. “Nel 2022 la tendenza è stata guidata in gran parte dalla stretta economica della pandemia, con più persone che cercano di vendere i loro beni di lusso in contanti e acquirenti di lusso che stringono la cinghia”, spiega Jacob Cooke, co-fondatore e CEO di WPIC Marketing + Technologies.
Il divario tra atteggiamento e comportamento
Uno studio di Vaayu per Vinted, uno dei maggiori siti di rivendita, ha confermato il citato divario tra atteggiamento e comportamento. Il 47% dei 350.000 utenti Vinted coinvolti nel sondaggio ha detto che compra sulla piattaforma perché offre articoli più economici rispetto al nuovo. A questo 47% aggiungiamoci un altro 7% che utilizza Vinted perché i prodotti offerti “sono economici e non ci sono rischi finanziari”. Ciò vuol dire che oltre la metà degli utenti compra prodotti di seconda mano non per motivi di sostenibilità, ma per motivi di portafoglio.
Solo il 20% (uno su 5) ha affermato invece di essere motivato da interessi ambientali. Che il portafoglio regni sovrano, lo testimonia anche il 42% che ha dichiarato di acquistare preferibilmente un capo con un valore di rivendita successivo. E per l’82% della Gen Z questa è una variabile determinante nella scelta d’acquisto. In altre parole, non compra un capo perché sostenibile, ma per il valore che ha nei siti di rivendita. Per cui l’esborso iniziale si riduce del valore che il consumatore incassa rivendendo lo stesso articolo. Un ragionamento che induce a un numero di acquisti più elevato mentre le pratiche sostenibili predicano l’esatto contrario.
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