Un’idea di lusso geneticamente modificata, che nelle premesse sembra esclusiva, ma che nasconde i paradossi di un’industria ormai avviluppata su sé stessa. È quella del new fast fashion che, per farsi percepire in modo più “alto”, coopta stilisti di fascia alta e cambia le regole. Ma in che modo?
di Domenico Casoria
Se due indizi sembrano una coincidenza, tre fanno una prova. Dopo l’annuncio della collaborazione tra H&M e Glenn Martens, è ormai chiaro che il fast fashion sta attraversando una mutazione profonda. Se i colossi del settore continuano a pescare dal borsino degli stilisti, non si può altrettanto dire che il lusso abbia una risposta a portata di mano. Con la conseguente morte del prêt-à-porter e una nuova idea di moda, che passa – inevitabilmente – proprio dal fast fashion. Rischi inclusi.
Tre indizi fanno una prova
A febbraio, l’azienda americana Gap – da qualche anno in crisi – ha nominato Zac Posen come direttore creativo. L’obiettivo? Affidare le redini di un marchio di denim e lifestyle a un designer con un expertise degno di nota, ma ormai fuori dal giro della moda. Dopo qualche mese, Claire Waight Keller, ex Givenchy, è stata nominata direttrice creativa del marchio giapponese Uniqlo. A ottobre, invece, è arrivata negli store di Zara la collezione di 100 pezzi disegnata da Stefano Pilati, direttore creativo di Yves Saint Laurent per tre anni. Pilati, che era scomparso dai radar, è tornato anche con una campagna fotografica scattata dal leggendario Steven Meisel, in cui ha posato insieme alla top model Gisele Bündchen. Infine: la recente collaborazione tra H&M e Glenn Martens, attuale direttore creativo di Diesel, che il prossimo autunno disegnerà una collezione per il marchio svedese.
Ostaggio del fast fashion
I matrimoni tra creativi e marchi del fast fashion non è una novità. Ma è ormai chiaro che l’approccio strutturale di questi progetti, modifica l’immagine di brand nati come alternativa (e opportunità) per i consumatori di fascia medio-bassa. Con buona pace del prêt-à-porter, che si è trasformato in un sistema fatto di prodotti inaccessibili, soprattutto dopo che la dittatura del lusso ha fatto schizzare i prezzi alle stelle. Il fast fashion ha, quindi, deciso di puntare su una generazione di designer con esperienza, per innalzare la propria immagine – al netto delle critiche legate ai metodi di produzione – e posizionarsi nella fascia che prima era proprio del prêt-à-porter. Puntando su una comunicazione contemporanea e scegliendo quei clienti che oggi non possono spendere per l’alta moda, ma che hanno l’ambizione di avere un capo o un accessorio, che nelle premesse, somiglia a qualcosa di esclusivo.
L’immobilità del lusso
La perdita di una fetta di mercato da parte del lusso equivale anche a un ripensamento di quelle che prima erano le categorie con le quali si identificava un prodotto del fast fashion. Basta una collaborazione con un designer, o la nomina di una direttrice creativa affermata, per cancellare lo stigma che si portano dietro questi colossi? Senza considerare poi l’aumento dei prezzi che il new fast fashion ha subìto, obbligando i consumatori di fascia medio-bassa a spingersi verso piattaforme come Shein o Temu. Senza perdere di vista l’emorragia della creatività – ormai imperante nel mondo del lusso – che però non fa nulla per arginare lo spostamento verso nuovi lidi. Un’idea di lusso geneticamente modificata, che nelle premesse sembra esclusiva, ma che nasconde i paradossi di un’industria ormai avviluppata su sé stessa. “Il prêt-à-porter è morto, lunga vita al prêt-à-porter!”.
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