E se essere un brand sostenibile non fosse, di per sé, sostenibile?

“L’industria non è ancora riuscita a creare una proposta di valore commerciabile e su larga scala per la moda sostenibile” sentenzia The State of Fashion 2025. Non è un caso che molti progetti falliscono e altri – parzialmente o meno – finiscono per rinnegare certe scelte. Perché alla fine i conti finiscono per non tornare

di Massimiliano Viti

 

La vita di un marchio di moda che si dichiara programmaticamente sostenibile è piuttosto complicata. Tanti ne nascono, molti ne muoiono perché restano piccoli, incapaci di generare economie di scala, con moltissimi ostacoli sia nella fase di produzione che nella vendita. Una difficoltà che si ripercuote anche a monte della filiera, verso chi produce materiali sostenibili e/o alternativi.

E se non fosse sostenibile?

Per marchi e fornitori green oriented, dopo un inizio promettente, arriva sempre la difficoltà di far quadrare i conti e a generare utili a fine anno. Succede anche quando arrivano importanti finanziamenti esterni. In altre parole, la sostenibilità del prodotto spesso non viene affiancata dalla sostenibilità economica. Oggi la vita è ancora più difficoltosa a causa dell’inflazione, del rallentamento dei consumi e di un cliente sempre più attento al prezzo.

Nell’edizione 2025 di The State of Fashion, lo studio pubblicato da McKinsey & Company e Business of Fashion, salta all’occhio che solo il 18% dei dirigenti del settore moda considera la sostenibilità uno dei tre principali fattori di crescita nel 2025. Una percentuale in calo rispetto al 29% del 2024, nonostante l’accelerazione delle normative green. Con la sostenibilità è difficile fare business. Anche perché, per la maggior parte dei consumatori, il prezzo dell’articolo è più importante dell’etichetta green.

Una strada lastricata di insuccessi

“Ciò impone ai marchi di impegnarsi attivamente e di educare i consumatori per stimolare la domanda di prodotti sostenibili. Con l’eccezione di pochi marchi, l’industria non è ancora riuscita a creare una proposta di valore commerciabile e su larga scala per la moda sostenibile” sentenzia The State of Fashion. Che cita una serie di insuccessi, tra cui Renewcell, Bolt Threads (il padre di Mylo, materiale alternativo alla pelle), nonostante il supporto di Stella Mc Cartney e Adidas.

Anche TomTex sta cercando partnership al di fuori della moda per assicurarsi volumi di ordini maggiori. Di recente, pure Natural Fiber Welding, la startup statunitense che produce Mirum (altra alternativa alla pelle) sembra in difficoltà ed è stata costretta a licenziare a causa “del ritardo della chiusura di contratti”. C’è il marchio di calzature sostenibili Vivobarefoot che, nonostante una crescita delle vendite a due cifre e oltre un milione di scarpe vendute, ha registrato una perdita nell’esercizio finanziario in corso.

I casi Mara Hoffman e Kit X

In questo contesto inflazionistico, il futuro dei marchi eco-compatibili sembra compromesso: perché – in questo senso – sostenibile equivale a costoso. Perché, o si diventa grandi o si resta di nicchia. Essere redditizio restando piccolo, con minimi margini, è difficile. Come nel caso di Mara Hoffman (New York) e dell’australiano Kit X, entrambi celebrati per la loro etica e sostenibilità (fonte Vogue Business), non tanto perché non vendevano, ma perché i loro problemi di produzione erano diventati insormontabili, anziché facilmente valicabili, come si potrebbe pensare.

Parliamo di reperibilità e costi delle materie prime e quantitativi minimi produttivi imposti dai laboratori di produzione. Ancora: il rispetto delle responsabilità di tutta la catena produttiva, dall’approvvigionamento dei materiali agli stipendi dei dipendenti delle fabbriche o persino dei rivenditori. Troppo. Al punto che per entrambi i marchi la cosa migliore non era più realizzare abiti in modo più sostenibile. È stato non realizzarli affatto. In una situazione in cui i profitti arriveranno (forse) tra molti anni, ne esce scoraggiato anche il più convinto degli investitori dall’anima green.

Avanti un altro

A inizio settembre, il marchio 100% riciclato Hopaal ha chiuso i battenti, 8 anni dopo il suo lancio, nonostante i promettenti inizi. Stessa sorte toccata a Zady, un marchio di moda sostenibile pioniere negli Stati Uniti che ha dovuto abbassare le serrande dopo 4 anni (fonte NSS Magazine). Il brand australiano Arnsdorf ha chiuso dopo 18 anni. A dicembre 2023, Dai – marchio britannico di abbigliamento femminile sostenibile – ha gettato la spugna. “L’ambiente macro che noi e molti giovani marchi stiamo affrontando ha fatto sì che il nostro futuro percorso diventasse una sfida quasi impossibile”, ha affermato l’azienda in un messaggio di chiusura ai clienti (fonte theage.com.au).

Un problema di consapevolezza

La domanda, arrivando al nocciolo della questione, è: come convincere il consumatore, soprattutto in un contesto inflazionistico, a spendere anche 150 euro per una t-shirt bianca? Come riuscirci, soprattutto, quando il fast fashion una t-shirt molto simile la vende a 5 euro? Ormai è chiaro che la consapevolezza green può smuovere le coscienze, ma non i portafogli.

Tuttavia, ci sono anche storie di successo. Per esempio, il marchio americano eco-responsabile Reformation. In scala minore, anche i francesi di MaisonCléo insieme ai britannici di Damson Madder, Omnes e Mother of Peal. Oppure, gli spagnoli di Laagam, gli australiani di Après Studio, gli italiani di Par.Co Denim. Brand che – come alcuni altri – ancora resistono e nuotano controcorrente.

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