L’ultimo cortocircuito della tracciabilità: il caso Better Cotton

La ONG Earthside ha tracciato oltre 800.000 tonnellate di cotone certificato da Better Cotton che però sarebbe stato prodotto in aree del Brasile dove si sono verificati episodi di espropri di terre, violenze e corruzione. Non è la prima volta che “la principale iniziativa mondiale di sostenibilità per il cotone” finisce nella bufera

 

di Massimiliano Viti

 

“I consumatori dovrebbero pensarci due volte prima di acquistare il prossimo capo di abbigliamento in cotone”. Lo ha detto Sam Lawson quando ha commentato i risultati del report dal titolo “Crimini di moda: i giganti europei del retail collegati al cotone sporco proveniente dal Brasile” pubblicato dalla ONG britannica Earthside, di cui è direttore. Da dove nasce questa convinzione? E in che modo mette alla sbarra “la principale iniziativa mondiale di sostenibilità per il cotone”? Una “iniziativa” che si promuove auspicando che la sua “visione di un mondo” debba essere “la norma”, in modo che “i coltivatori di cotone e le loro comunità prosperino” grazie a “un approccio olistico e uno standard rigoroso da rispettare”. In altre parole: l’ennesimo cortocircuito green è servito. Si chiama Better Cotton.

L’ultimo cortocircuito

Se il cotone proviene dalla Cina c’è il sospetto che sia frutto del lavoro degli Uiguri. Se viene dal Brasile può essere prodotto in maniera illegale. Anche se certificato. Earthside ha tracciato oltre 800.000 tonnellate di cotone certificato da Better Cotton che però sarebbe stato prodotto in aree del Brasile dove si sono verificati episodi di espropri di terre, violenze e corruzione. Better Cotton è semplicemente il più grande ente certificatore di cotone sostenibile. Aziende come LVMH, Inditex, H&M, Mango e moltissime altre utilizzano il cotone che certifica e che costituisce il 22% della produzione mondiale. Né H&M né Inditex acquistano direttamente il cotone, ma comprano i loro capi dai fornitori asiatici.

Il caso Better Cotton

La reazione del gruppo Inditex, proprietario di marchi come Zara, Pull&Bear, Bershka e altri, nei confronti di Better Cotton è stata molto decisa. La società guidata da Marta Ortega ha inviato una lettera al CEO di Better Cotton, Alan McClay, chiedendo delucidazioni sul processo di certificazione e sui progressi delle pratiche di tracciabilità. Le accuse di Earthsight “rappresentano una grave violazione della fiducia riposta nel processo di certificazione di Better Cotton sia dal nostro gruppo che dai nostri fornitori di prodotti”, si legge nella lettera visionata da Modaes.

Absolute bullshit: pure greenwashing

Non è la prima volta che l’operato di Better Cotton finisce sotto osservazione. Tant’è che l’organizzazione è stata accusata anche di greenwashing. Nel 2017 il fondatore di Patagonia, Yvon Chouinard, uno dei pionieri della moda sostenibile, in un’intervista a Der Spiegel, è arrivato a definire Better Cotton Initiative “absolute bullshit: pure greenwashing”. Forse anche perché, in Brasile, ABRAPA, l’associazione brasiliana dei produttori di cotone, funge da amministratore di Better Cotton. Ma anche perché alcune aziende certificate Better Cotton sono poi state accusate di essere coinvolte nel reclutamento e nel trasferimento involontario di Uiguri dallo Xinjiang.

Non è il primo caso

La vicenda che vede coinvolta Better Cotton è molto simile a quella che ha visto protagonista la Sustainable Apparel Coalition (SAC), costretta a sospendere Higg Index dopo che, nel giugno 2022, le autorità per i consumatori di Norvegia e Paesi Bassi hanno segnalato il suo utilizzo “falso e fuorviante e, quindi, illegale” nelle campagne di marketing. Higg Index ha cambiato nome – è diventato Wordly -. Idem SAC, che ha preso il nome di Cascale per sciacquare i panni sporchi e riacquistare reputazione. Basterà un rebranding?

Una riflessione dovuta

Il caso Better Cotton e quello di Higg Index mettono a nudo varie sfumature dello stesso problema. In altre parole: definire in modo sensato, veritiero e affidabile la tracciabilità della propria supply chain. Troppo spesso, chi si sente investito (o si “autoinveste”) di questa responsabilità costruisce e propone standard che, alla logica dei fatti, non sono reali certificazioni (con tutto il rigoroso sistema su cui si basano e dalle quali deriva), ma progetti che troppo facilmente scivolano nel greenwashing e troppo spesso sono controllati da chi dovrebbero – a loro volta – controllare. Un cortocircuito. Quello di Better Cotton è, cronologicamente, l’ultimo. Almeno per ora.

Nessuna prova, punti deboli

Better Cotton ha dichiarato che un audit condotto dalla società di consulenza Peterson Global non ha riscontrato prove che i suoi standard fossero stati violati dalle aziende agricole coinvolte. Tuttavia, ha riconosciuto che i risultati hanno evidenziato dei punti deboli spiegando che il suo approccio “è focalizzato sull’attività delle singole aziende agricole senza considerare gli interessi dei loro proprietari”. Quindi, ha annunciato che nei prossimi mesi valuterà come espandere la supervisione alle aziende proprietarie di coltivazioni di cotone. (mv)

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