La necessità della tracciabilità, l’esigenza della trasparenza

Entrambe le coppie di vocaboli contenuti nel titolo – tracciabilità + trasparenza / necessità + esigenza – portano con sé un significato simile, che differisce e si completa in virtù di alcune sfumature. Quelle che giustificano anche l’inserimento in questo articolo di tre esperienze, per certi versi, diverse tra loro, ma unite dalla stessa esigenza. Quelle di Borbonese, Mulberry e Aura Blockchain

Una sottile, importantissima, linea rossa. È quella che unisce, in modo simbolico, alcuni progetti che, all’interno della filiera della moda e del lusso, stanno esplorando, in modo attivo ed evolutivo, la necessità della tracciabilità. Dal micro al macro, ne abbiamo isolati tre, che ci sembrano significativi, a più livelli, nel soddisfare l’urgenza e l’esigenza della trasparenza.

La necessità della tracciabilità

Caso numero 1: Borbonese

In Italia, la collaborazione tra Borbonese con il consorzio di allevatori piemontese La Granda e la conceria vicentina LABA è un progetto che permette di inserire nello sforzo per la sostenibilità del marchio un piano a garanzia della filiera della pelle. Lo ha spiegato il CEO Alessandro Pescara durante il terzo appuntamento del ciclo di webinar “Sulla nostra pelle. Dialoghi sulla bellezza”, sostenuto da UNIC – Concerie Italiane e organizzato in collaborazione con il quotidiano Il Foglio. “Oggi tutti parlano di sostenibilità, ma l’argomento è più complesso di come molti lo rappresentano. Con il mio team – racconta Pescara – ci siamo impegnati in uno sforzo complessivo, che parte dalla cultura d’impresa e arriva al prodotto tramite il dialogo con i partner. Abbiamo partecipato a convegni e riunioni. Ne abbiamo discusso con i nostri fornitori, perché non possiamo sapere tutto noi del brand, certi processi si possono affinare solo in sinergia con i supplier”. L’obiettivo è un risultato “chiaro, certificato, in linea con i nostri costi, trasparente, condivisibile con il cliente”.

Borbonese ha rivolto la propria attenzione a tre filiere: quella della pelle, quella del nylon e quella del canvas. “Ci siamo chiesti: esiste la pelle sostenibile – prosegue il CEO -? Certo che sì. L’impegno dell’azienda è lavorare con i fornitori per essere certo che l’intero percorso del materiale, inclusi l’impatto ambientale, il benessere degli animali e quello degli addetti, sia a regola d’arte”. In questa cornice si inserisce il progetto con il consorzio piemontese La Granda. “Lo hanno fondato nel 1996 e offre le migliori condizioni per l’allevamento dei bovini, dalla loro nutrizione al trattamento veterinario – conclude Pescara –. Il consorzio ci offre una fornitura di pellami che noi, prima di impiegare per le nostre collezioni, affidiamo alla conceria LABA”. Borbonese ottiene così una pelle tracciabile. Una pelle di cui si sa tutto.

Caso numero 2: Mulberry

“Può una borsa salvare il mondo?” si chiede in termini retorici Mulberry, introducendo Made to Last. In altre parole, il suo manifesto per raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni nette entro il 2035. Un target che chiama in causa direttamente la gestione dei rapporti di filiera. In particolare, di quella a monte. Mulberry, infatti, prediligerà l’approvvigionamento “iper-locale e iper-trasparente” da selezionate concerie locali, cioè britanniche, per inseguire un approccio “a chilometro zero” e ridurre così i trasporti e le relative emissioni di carbonio.

“Stiamo lavorando in collaborazione con concerie leader del settore – scrive la griffe – per sviluppare la pelle a più bassa impronta di carbonio al mondo, proveniente da aziende di allevamento attente all’ambiente”. Il che, nei prossimi mesi, permetterà al brand inglese di lanciare le sue prime borse che rispecchiano il concetto “dalla fattoria al prodotto finito. Il mercato è sempre alla ricerca di pelle, quindi ci siamo detti: usiamo pelle a bassa impronta di carbonio. Ed eliminiamo tutte le zone grigie nella nostra catena di approvvigionamento” spiega Thierry Andretta, CEO di Mulberry, a Fashion Network. Anche in questo caso: una pelle di cui si sa tutto.

Caso numero 3: Aura Consortium

Tutto diverso dai due precedenti, ma con uno scopo assolutamente sovrapponibile, è l’esempio di Aura Blockchain Consortium a cui hanno dato vita LVMHRichemont e Prada. Il Consorzio, però, è aperto a tutti i prodotti di lusso e a tutti i marchi del settore. Infatti, Kering starebbe valutando di farne parte. L’obiettivo di massima è quasi banale: aiutare i consumatori a tracciare la provenienza e l’autenticità dei beni di lusso. Come? Dandogli accesso diretto alla storia del prodotto, al certificato di proprietà, alla garanzia e a un libretto di manutenzione.

Aura, che opererà da Ginevra, è stata sviluppata in collaborazione con Microsoft e ConsenSys, società di tecnologia software blockchain con sede a New York. Nel comunicato congiunto si sottolinea come “i marchi di lusso hanno una storia unica da raccontare sulla qualità dei loro materiali, l’artigianato e la creatività” e che la blockchain avrebbe “aumentato la fiducia dei clienti nelle pratiche sostenibili dei marchi e nell’approvvigionamento dei prodotti”. Louis Vuitton è stato il primo a sfruttare la piattaforma Aura e ha già emesso un numero “molto significativo” di certificati.

Per i commercianti, la blockchain offre anche un’arma contro i contraffattori e la distribuzione sul mercato parallelo (i daigou cinesi, per esempio), perché fa chiarezza sulla storia di ogni articolo risalendo tutta la filiera che c’è alle sue spalle. In questo caso: sapere tutto di tutto.

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