Per onorare la mostra (fino al 16 marzo 2025) che la Triennale di Milano dedica a Elio Fiorucci, è giusto partire dalla frase che saluta i visitatori. “Fiorucci does not discriminate against the unique and unusual”. Da qui parte anche la nostra esperienza di visita alla scoperta del genio creativo di Fiorucci
di Domenico Casoria
L’unico e l’insolito, due astrazioni collaterali raccontate con la moda. Un genio creativo rispettosamente disobbediente. Una rivoluzione stilistica urlata silenziosamente. Il retroterra culturale milanese, italiano (e non solo) pronto ad esplodere verso la contemporaneità. Elio Fiorucci è stato tutto e il contrario di tutto. Ma ha anche flirtato con la moda come la conosciamo oggi. Ve la raccontiamo come si racconta un giro, superadrenalico, sulle montagne russe.
Perché proprio lui
Tre grandi percorsi curati da Judith Clark, ognuno allestito sul filo del rasoio, che permettono di scoprire come l’essere umano ha lasciato spazio a Fiorucci. Il primo è affidato ai ricordi personali attraverso la sua voce. “Ho usato per primo certi colori, forse con una certa incoscienza, quando le scarpe erano per lo più marroni, e c’era quest’aria in giro triste e grigia”» ripete, quasi come una cantilena, Fiorucci, con la consapevolezza di uno che sa di aver trovato il modo di leggere i clienti. È una storia, la sua, che parte dal negozio di pantofole del padre, rimasto illeso dopo i bombardamenti della guerra. Quelle babette sensuali che il giovane Elio vendeva addirittura alle suore. Poi, il primo viaggio nella swinging London degli anni ’60, dove il proibizionismo lascia spazio a edonismo e desiderio.
Come gli piaceva Londra
Ma è nello store di Barbara Hulanicki, Biba – ritrovo per artisti e musicisti rock – che vede i giovani vestirsi secondo la moda del momento: camicie variopinte, minigonne, stivaletti al ginocchio, trucco e parrucco. Da Biba saccheggia con gli occhi, con la mente e, tornato a Milano, apre nel 1967 il primo concept store in Galleria Passarella. Una rivoluzione, dicevamo, coloratissima, pop, dirompente, favolistica. Una lotta silenziosa fatta di trench in plastica colorata, tute di carta, angeli vittoriani e jeans che avvolgono, una volta per tutte, le donne, dopo l’intuizione di tirare indietro il cavallo di due centimetri.
L’altro racconto
Gli altri due percorsi della mostra, invece, partono da una raccolta di opere inedite e da alcune installazioni scenografiche ispirate al teatro, per raccontare l’anima narrativa e avanguardista del genio creativo. Nel 1974 apre un secondo negozio a Milano in via Torino: tre piani, sacri e profani, in cui è possibile acquistare di tutto, mangiare e incontrare gli amici. Poi New York – realizzato insieme all’architetto Ettore Sottsass –, Chicago, Los Angeles, ancora Londra. È a questo punto – e solo dopo dieci anni di Fiorucci Pensiero – che si inizia a parlare di un prima, di un dopo e di un nuovo metodo di lavoro. Basta esplorare la riproduzione del suo ufficio esposta in Triennale: un fiume di riferimenti di qualunque tipo che convogliano tutti nella moda.
Cambiare il paradigma
Oltre ad aver trasformato lo shopping in quella che tutti oggi chiamiamo “esperienza trasversale”, Fiorucci è stato un cacciatore di tendenze ante-litteram. Non era lui a disegnare, ma era bravissimo a connettere le persone per creare l’unicità. Ha intuito prima degli altri la potenza del design. È stato il primo a firmare una linea di occhiali. È stato il primo a esagerare i loghi. Non ha ceduto alle pagine pubblicitarie o agli spot televisivi, inserendo la pubblicità direttamente nei prodotti. Ha giocato con lo humor, la leggerezza, con il politicamente corretto e pure con i culi, sdoganandoli. È stato la tempesta perfetta dopo decenni di moda (calma) piatta. Un genio creativo che ha scavato un solco, ci ha piantato un seme, lo ha coltivato e lo ha lasciato fiorire. Annaffiandolo continuamente.
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