Nessuno rischia più. Tutti fanno le stesse cose. Il pericolo della banalizzazione è altissimo. Partiamo dalle dichiarazioni di Marco Bizzarri, ex CEO di Gucci per capire cosa sta succedendo a una moda, in crisi di identità. Come dimostra l’uscita senza troppe spiegazioni di Sabato De Sarno da Gucci. Una notizia che ha a che fare (soprattutto) con la creatività. O con il modo in cui si comunica
di Domenico Casoria
“La direzione creativa è fondamentale. Oggi si assiste a un piattume completo, perché non si rischia più. Si conoscono i dati dell’engagement, degli acquisti di chi viaggia, del negozio a Timbuctù e sulla base di questi numeri si dice al direttore cosa fare e cosa no. Si agisce in base al passato e tutti sono portati a fare la stessa cosa. Bisogna tornare a realizzare qualcosa sulla base più delle emozioni che dei numeri, altrimenti c’è un alto rischio di banalizzazione”. Così parlò Marco Bizzarri, ex CEO di Gucci e ora a capo della holding Nessifashion che ha investito nel marchio Elisabetta Franchi.
Che fine ha fatto la creatività?
Tanto si è scritto sulla crisi dell’industria della moda. E tanto si è detto della trasformazione che la figura del direttore creativo sta subendo. Tutte le considerazioni – prezzi troppo alti, lusso troppo esclusivo – tengono fuori una crisi che è ancora più strutturale: quella della creatività. Non parliamo di creatività in senso stretto, ma di quel cappello sotto cui finisce la narrazione che la moda fa dei prodotti. Negli ultimi anni (soprattutto dopo la pandemia) i manager d’azienda si sono convinti che era giusto puntare su prodotti meno rischiosi. Tonalità neutre, forme standard, pochi fronzoli.
In altre parole: il “vero lusso”. Silenzioso, minimalista, qualcuno direbbe “basico”, ma pur sempre estremamente costoso e lontano dall’accessibilità a cui pochi possono ambire. Per almeno un paio di stagioni, abbiamo visto in passerella collezioni tutte uguali che hanno finito per allontanare dal dibattito moda i potenziali clienti. Sembrava – forse – la risposta. Ma non ha soddisfatto i tradizionali meccanismi di desiderio e aspirazione che non sono più riusciti a giustificare il valore di un prodotto. Così, la moda ha capito che di questo passo non sarebbe durata più di tanto ed è tornata alla sicurezza del passato, quello – in precedenza – tanto vituperato. In verità ci ha provato ad invertire la rotta, ma con scarsi risultati.
Il caso De Sarno
Il 6 febbraio dopo poco meno di due anni alla direzione creativa di Gucci, Sabato De Sarno ha abbandonato la nave. Era stato nominato per succedere ad Alessandro Michele. Una nomina fin da subito messa in discussione, perché De Sarno ha chiuso i rapporti con il passato massimalista della griffe, creando un paio di collezioni tutto sommato basiche, lineari, senza troppi guizzi. Tutto l’opposto del suo predecessore. Non si può certo dire che non ci fosse creatività, ma per quel poco tempo che ha avuto, De Sarno non è riuscito a comunicarla, a comunicare la sua visione, scontrandosi con un mercato di prodotti anestetizzato, a cui serviva una scossa. O forse, in questo momento della sua carriera, l’esercizio creativo era in costruzione. Si può essere dei creativi magistrali, ma poi bisogna trasformare le idee in fatti. Risultato? Fine di una liaison costruita su presupposti sbagliati.
Il significato di un ritorno
Alessandro Michele, dicevamo, che è ricomparso sulla scena della moda dopo essere uscito da Gucci alla fine del 2022. A marzo del 2024, infatti, è diventato il nuovo direttore creativo di Valentino, sostituendo Pierpaolo Piccioli. La prima collezione – con quella couture andata in scena il 30 gennaio – hanno subito mostrato la differenza dal punto di vista creativo. Mentre quelle di Piccioli erano collezioni sartorialmente perfette, ma meno abili a raccontare storie, quelle di Michele raccontano tutto quello che c’è da raccontare. Sono estremamente riconoscibili, sono comunque ricercate nei dettagli, ma conservano una difficoltà di lettura. Con i suoi progetti, Michele inquina volutamente lo sguardo, perché vuole riportare il cliente a riflettere sui meccanismi della moda.
Una moria creativa senza fine
Allo stesso tempo, però, parliamo di un profondo riadattamento dei codici d’archivio che tornano riattualizzati. Infatti, le critiche più feroci a Michele – sul tono del “che fine ha fatto Valentino” – confondono il lavoro di Piccioli con quello del fondatore che, analizzato nel profondo, è diverso. Ma ci dicono tanto anche di come è percepita oggi la creatività, al punto da non riconoscerla quando qualcuno prova a metterla in atto. La crisi non è altro che una diretta conseguenza della semplificazione di lavorazioni e di concetti. Prodotti tutti uguali che alimentano una moria creativa senza fine. Così, il dibattito su che cosa sia la moda oggi è ritornato prepotentemente sulla scena. È arte? Sono solo vestiti? Perché sembra quasi che quei pochi esercizi creativi che si vedono in giro, siano direttamente bollati come estremismo o provocazione.
Per tenere in piedi Balenciaga, Demna Gvasalia ha sempre sopperito ad abiti oggettivamente poco portabili, con trovate artistiche (o di marketing) che però richiedono uno sforzo creativo profondo e una buona dose di rischio. Questo fa di lui un provocatore? Forse, ma sempre attingendo da una creatività che guarda al passato per provare a leggere dove va il mondo. Certo è che il discorso della moda è ormai polarizzato: copie fatte benissimo o cose mai viste. In mezzo il nulla. Non c’è quindi una risposta: non è fattibile sapere dove andrà la moda nei prossimi mesi. Quello che sappiamo, invece, è che i clienti non sono più disposti a spendere migliaia di euro per un maglione senza arte né parte. E questo è già un punto di partenza.
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