Gli USA contro TikTok: una social war che riguarda anche la moda

È la storia di una social war lunga e complessa quella che coinvolge gli Stati Uniti e la piattaforma TikTok. Uno scontro dai contorni geopolitici che, però, rischia di scatenare uno tsunami nel mondo della moda

 

Massimiliano Viti

 

Donald Trump verrà ricordato (anche) per aver lanciato un salvagente a TikTok? Possibile. Eppure, solo 4 anni e mezzo fa, nel suo primo mandato, cercò di chiuderlo. Questo dietrofront è solo uno dei tanti colpi di scena nella storia dell’app cinese negli USA che, a livello globale, ha acquisito sempre maggiore importanza per il mondo della moda. La possibile chiusura di TikTok, infatti, ha messo in guardia non solo gli influencer che sulla piattaforma guadagnano con i loro video, ma anche molti marchi del fashion system.

Una social war che riguarda anche la moda

Tra TikTok e TikTok Shop c’è molto in gioco per l’industria della moda. Brand come PacSun, Ralph Lauren e Nike usano la piattaforma per entrare in contatto con i consumatori. Per intenderci: nel 2024 TikTok Shop, secondo una stima citata da WWD, avrebbe generato circa 1,5 miliardi di dollari di vendite negli Stati Uniti. Le statistiche demografiche indicano che la app si stava estendendo oltre la Gen Z, raggiungendo Millennials e Gen X. Secondo Darpan Seth, CEO di Nextuple, TikTok Shop potrebbe potenzialmente dominare il commercio digitale globale arrivando a 25 miliardi di dollari di giro d’affari. Questo perché TikTok è importante per mostrare ai giovanissimi come viene fatto un prodotto.

Un rischio per la sicurezza

Ma perché gli USA vogliono vietare TikTok? Per capirlo occorre partire dal 2019, quando l’esercito e la marina degli Stati Uniti decidono di bandire l’app cinese dai dispositivi governativi, perché il Dipartimento della Difesa l’aveva definita un rischio per la sicurezza. Per la stessa ragione, il 6 agosto 2020, Trump firmò un ordine esecutivo per vietare TikTok (e altre app cinesi). Quale sarebbe il pericolo? La società che possiede TikTok si chiama Byte Dance ed essendo di proprietà cinese può essere costretta dalla legge a fornire tutti i dati che archivia al governo di Pechino. L’ordine esecutivo di Trump restò in sospeso per una controversia legale, ma il sentimento anti-TikTok fu ereditato da Joe Biden e culminò in una legge firmata il 24 aprile 2024 (Protecting Americans from Foreign Adversary Controlled Applications Act) che, con un massiccio sostegno bipartisan, vietò l’esistenza di TikTok negli USA.

Ricorsi e controricorsi

Anche in questo caso partì la sfida a colpi di carte bollate. Arriviamo al 17 gennaio 2025. La Corte Suprema respinge il ricorso fondato sulla richiesta di incostituzionalità presentata da Byte Dance e conferma all’unanimità la validità della legge Biden. Per cui, dal 19 gennaio 2025, TikTok deve chiudere, a meno che non venga ceduta. Sabato 18 gennaio, (22.30, ora della costa orientale), l’app amata da oltre 170 milioni di americani diventa inaccessibile negli Stati Uniti. Byte Dance ha premuto il pulsante Off per, poi, però premere nuovamente On attorno a mezzogiorno di domenica 19 gennaio, dopo 12 ore di blackout. Il tutto accompagnato da una dichiarazione di ringraziamento al presidente Trump.

Il salvagente di Trump?

Il giorno dopo, il presidente USA firma un ordine esecutivo col quale impone al Procuratore Generale di non intraprendere alcuna azione per far rispettare la legge anti-TikTok per un periodo di 75 giorni. Quindi, una decisione completamente opposta rispetto a quella che aveva preso ad agosto 2020. Tecnicamente, l’ordine di Trump non annulla il divieto, ma ne dispone il mancato controllo. In maniera spicciola, se hai l’app di TikTok sullo smartphone puoi continuare a utilizzarla, ma se non ce l’hai non la puoi scaricare. Questo ha finito per alimentare, negli USA, un fiorente mercato di telefonini usati ricondizionati con l’app già istallata che hanno raggiunto prezzi da capogiro. Ma c’è di più.

La reazione degli Young Americans

La reazione dei giovani americani, però, dimostra che non sembrano tanto convinti del pericolo cinese. Milioni di utenti statunitensi di TikTok, infatti, si sarebbero riversati sull’app – ancora più cinese – Xiaohongshu che negli USA è nota come RedNote, dopo aver accettato i termini di servizio scritti in mandarino (fonte The Guardian). Probabilmente, questa reazione era stata fiutata da Trump che ha capito istintivamente il loro stato d’animo anche perché suo figlio Barron ha accumulato 15 milioni di follower su TikTok.

Possibili acquirenti

Dopo la sospensione, diversi soggetti sembrano interessati a rilevare TikTok. Per esempio, Frank McCourt, Jimmy Donaldson (Mr. Beast), Microsoft, Oracle e X (la piattaforma di Elon Musk). Al momento hanno tempo fino al 4 aprile 2025 per compiere l’operazione. In altre parole, il giorno di scadenza della sospensione  voluta da Trump che, però, difficilmente si farà grandi problemi a firmare un’eventuale estensione.

Un canale fondamentale di marketing

“La perdita di TikTok, anche temporanea – dice Susan Scafidi, direttore accademico del Fashion Law Institute presso la Fordham University -, eliminerebbe un canale di marketing chiave per molti marchi di moda”. Maryanne Grisz, CEO di Fashion Group International, sottolinea come TikTok sia diventata leader negli strumenti di marketing e vendita per molte piccole aziende di moda. Ma TikTok è importante anche per la narrazione della moda. Molti creator, infatti, postano contenuti video che mostrano come vengono realizzati i prodotti all’interno delle fabbriche che riforniscono i grandi marchi. Conoscere la produzione e la provenienza dei prodotti sta diventando un nuovo status symbol, mentre i consumatori rinunciano ai loghi a favore di un lusso tranquillo e di uno streetwear tecnico.

Made in this factory

Quest’ultima, è un’evoluzione dell’uso di TikTok tutt’altro che da trascurare. Secondo Vogue Business, molti di coloro che sono interessati a questo tipo di contenuti guidano piccole start up o progettano di avviare un’attività di moda e vogliono imparare come funziona la filiera produttiva. In questo senso, Glass Factory è una piattaforma che presenta i produttori selezionati in base a vari criteri, tra cui certificazioni, marchi con cui lavorano, stile di gestione e come trattano i dipendenti. “Stiamo cercando di cambiare il modo in cui le persone etichettano le cose. Non vogliamo più il Made in China, il Made in Italy e il Made in Portugal. Vogliamo il Made in This Factory”, conclude il fondatore di Glass Factory William Lasry.

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