Sempre di più. Sempre più economico. Talmente economico che, in certi casi, il nuovo costa meno dell’usato. Quello sul fast fashion è un dibattito senza fine
Sulla spiaggia di Chorkor, vicino ad Accra, la capitale del Ghana, c’è una marea di vestiti. Formano un muro alto più di due metri. “Quando piove, i corsi d’acqua e le grondaie della città eruttano indumenti nell’oceano. Poi le onde depositano gran parte dei rifiuti sulla riva”. Lo racconta Solomon Noi, responsabile della gestione dei rifiuti della città. Noi svolge un compito difficilissimo in una partita persa. Un disastro in atto da decenni, poiché nel mondo l’offerta di abbigliamento è diventata più abbondante, sempre più usa e getta ed economica. Con conseguenze che somigliano alla trama di un romanzo distopico. Invece, è la realtà.
100 miliardi di capi
Ogni anno l’industria della moda produce più di 100 miliardi di capi di abbigliamento, circa 14 per ogni persona sulla Terra. Ogni giorno, secondo un rapporto McKinsey, Shein introduce sul proprio portale quasi 6.000 prodotti (fonte WWD). In questo secolo, i consumatori di tutto il mondo hanno progressivamente aumentato il numero dei vestiti acquistati e, quindi, ridotto le volte che li indossano. In media, gli americani indossano i loro capi meno di 50 volte. Nel 2000 i cinesi indossavano i vestiti oltre 200 volte. Nel 2016 questo numero si era già ridotto a 62. La Ellen Macarthur Foundation, organizzazione britannica no profit, ha stimato che ogni secondo un camion carico di tessuti viene scaricato in discarica o incenerito (fonte UNEP).
Il mito della circolarità
L’ascesa del fast fashion e il prediligere la quantità rispetto alla qualità, ha portato a un eccesso di abbigliamento di basso valore che grava, in termini di “assorbimento” (diciamo così…) dell’invenduto, sui Paesi in via di Sviluppo. Un modello di business basato su un fatturato rapido, volumi elevati e prezzi convenienti che oggi è sotto pressione. Almeno a parole. Infatti, si sta diffondendo il mito della circolarità, che mette (quasi) al riparo aziende e consumatori dalla scomoda realtà secondo cui l’unica via d’uscita dalla crisi globale dei rifiuti tessili è comprare meno, comprare meglio e indossare più a lungo. In altre parole, porre fine o mettere un significativo freno al fast fashion.
Meno dell’1%
Riutilizzare si può, mentre riciclare, per la fashion industry, è molto complicato e antieconomico. Non solo elementi come bottoni e cerniere devono essere rimossi, ma i tessuti misti devono essere separati e i coloranti eliminati. Questo è un compito arduo, a differenza di come possono essere gestite bottiglie di plastica o cartone. In altre parole: il flusso di rifiuti degli indumenti usati non è uniforme. Non solo: a volte rappresenta una strada senza uscita. Basti questo esempio, per capirlo. Una bottiglia di plastica può essere riciclata molte volte, continuando a riproporsi come una nuova bottiglia di plastica. Quando, invece, una bottiglia di plastica diventa fibra per un piumino, il processo finisce.
Non a caso la Ellen MacArthur Foundation, a livello globale, stima che meno dell’1% degli indumenti usati viene effettivamente trasformato in nuovi capi. Mentre il 9% della plastica e circa la metà della carta viene riciclata (fonte SCMP).
Effetto saturazione e non solo
Anche nel caso in cui il processo di separazione e riciclo degli indumenti usati diventasse più facile e più economico, bisogna considerare che i mercati sono saturi. Ma ancora più allarmante è il fatto che la Cina sta producendo vestiti a un prezzo così basso che in alcuni casi i capi nuovi sono più competitivi rispetto a quelli usati.
Le soluzioni: banali, ma difficili
“Bisogna capire che tutti i tessuti, nuovi o riciclati, prima o poi finiranno in discarica”, afferma Mark Burrows Smith, CEO di Textile Recycling International. “La chiave è mantenere l’indumento in uso il più a lungo possibile”. Julia Attwood, responsabile dei materiali sostenibili presso BloombergNEF, è molto chiara. “Ogni volta che si pensa all’economia circolare di qualsiasi cosa, la cosa migliore da fare è ridurre la domanda. Bisognerebbe uccidere il mercato del fast fashion per ottenere una differenza significativa nelle emissioni o nell’impronta del tessile dal punto di vista del riciclo”. Ovvio, quasi banale: probabilmente impossibile. (mv)
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