Il second hand come scelta sostenibile, ma fino a un certo punto 

Acquistare accessori e abiti di lusso sui portali o nei negozi dell’usato non è solo un modo per il classico “affare”. Da più parti si dice sia una scelta sostenibile e, per certi versi, è difficile sostenere il contrario. Ma non è tutto green quel che luccica in questo settore, perché, in fin dei conti, il second hand non è altro che l’altra faccia della spirale del consumo di massa 

 

I termini più comuni per definirlo sono: second hand, re-selling, pre-loved, pre-owned. Acquistare abbigliamento e accessori utilizzando questa modalità commerciale sta diventando sempre più facile, accessibile e, di conseguenza, sta attirando le nuove generazioni per cui il giro di affari che muove è in piena espansione. Per McKinsey il mercato dell’usato fashion, che valeva 25-30 miliardi di euro nel 2020, è destinato a crescere del 10-15% ogni anno nei prossimi dieci. Barclays ci dice che nel 2021 il second hand valeva 36 miliardi di dollari e nel 2025 arriverà a 77 miliardi. Probabilmente sono incluse anche le fantasmagoriche cifre che i consumatori sono disposti a spendere per assicurarsi una Birkin o una borsa Chanel usate. E sia, ma qui la domanda che ci poniamo è un’altra: acquistare borse (e non solo) di seconda mano è una scelta di sostenibilità?

Il fronte del “sì” 

L’acquisto di seconda mano rappresenta un modo nuovo e – sì – più sostenibile di fare acquisti. Consente di aggiungere modelli al guardaroba senza utilizzare risorse aggiuntive nel processo di produzione. Inoltre, l’acquisto di abiti e accessori già esistenti rallenta il ciclo della moda. Inoltre, è un modello di shopping più economico e accessibile rispetto alle altre forme di acquisto. Per costruire un guardaroba etico rappresenta un inizio interessante, anche nell’ottica di non cedere alle lusinghe a buon mercato (ma ad alto impatto) del fast fashion.

Il thrift flipping e l’ombra del “no” 

Conoscete la pratica del “thrift flipping“? Consiste nell’acquistare un articolo sui portali o nei negozi del second hand per personalizzarlo. Spesso per uso personale. Altrettanto spesso per immetterlo in nuovi circuiti commerciali. Secondo gli addetti ai lavori rappresenta un’ombra che offusca la pretesa di sostenibilità dell’usato. Perché? In pratica inceppa i meccanismi virtuosi di cui scrivevamo nelle righe precedenti, riducendo la possibilità di scelta agli acquirenti più aspirazionali (che cercano accessori di lusso a prezzi più abbordabili di quelli nuovi). Il thrift flipping, insomma, droga il mercato del second hand, riducendo le disponibilità di magazzino e facendo lievitare gli scontrini.

Scaricare il senso di colpa 

Più in generale, il vero nocciolo della questione è capire quanto il second hand risponda a una necessità o se, invece, non sia altro che una diversa forma di consumo di massa. “Le persone cercano modi sostenibili e senza sensi di colpa per fare acquisti“, afferma Anna Fitzpatrick, del London College of Fashion’s Centre for Sustainable Fashion. Per lei non c’è dubbio: il second hand non aiuta a costruire un futuro sostenibile. “Non sfida la nostra dipendenza dallo shopping o l’idea che possiamo avere nuovi vestiti ogni volta che lo vogliamo. Lo abilita. Lo shopping dell’usato si nutre dell’instabilità e dell’insostenibilità dell’industria del fast fashion. Senza di essa, non ci sarebbe un mercato dell’usato così vasto”.

La (vera) scelta sostenibile 

La verità sta nel mezzo. Sì, lo shopping di seconda mano è generalmente più sostenibile dell’acquisto del nuovo. Ma non siamo sulla strada giusta se il nostro armadio è intasato di vestiti, nuovi o usati che siano. Dovremmo comprare solo ciò di cui abbiamo realmente bisogno e poi prendercene cura affinché ogni articolo possa durare più a lungo possibile. L’unica verità, nonché la più sostenibile, è solo questa.

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