Il salto culturale e organizzativo dell’AI: istruzioni per l’uso

Durante l’ultima edizione di Lineapelle (23-25 settembre) l’AI è stata analizzata e raccontata sotto vari punti di vista. Uno di questi, strettamente connesso al concetto più ampio possibile di governance di azienda della filiera fashion, è stato protagonista di un intervento di Gianluigi Zarantonello. In questa intervista ci spiega perché l’AI, pur essendo “un processo tecnologico”, rappresenta “prima di tutto un aspetto culturale e organizzativo”

di Massimiliano Viti

 

“La potenza è nulla senza controllo” recitava uno slogan pubblicitario degli anni ’90. Lo possiamo traslare all’attualità applicandolo alle ultime tecnologie disponibili e al rapido sviluppo dell’Intelligenza Artificiale generativa all’interno delle aziende. Anche quelle di grandi dimensioni, che investono molto di più di quanto si percepisce dall’esterno, ma spesso non riescono a sfruttare tutta la potenza dei mezzi a loro disposizione per carenze gestionali e la mancanza di un linguaggio comune. Fino ad arrivare a costose e inutili duplicazioni di materiali digitali. Succede in ogni settore. Succede anche nella fashion industry, come ci spiega Gianluigi Zarantonello, esperto di innovazione strategica nella moda e nel lusso. Zarantonello è intervenuto durante l’ultima edizione di Lineapelle (23 – 25 settembre) all’interno della presentazione del progetto AIMateriality che fa parte di Ingenium, piattaforma italiana che punta a collegare il settore del Made in Italy con quello delle tecnologie emergenti. Open Innovation e AI, soprattutto. Progetti che vedono coinvolta in prima fila Lineapelle con l’obiettivo di far fare un salto culturale e organizzativo (e non solo tecnologico) alle aziende della sua community.

Un salto culturale e organizzativo

Qualche esempio? Le foto di prodotti scattate più volte per vari usi e che non sono facilmente accessibili da tutte le persone che ne potrebbero avere bisogno. O il prototipo 3D: la sua esistenza è conosciuta solo dalla divisione creativa o comunque da chi lo realizza per un uso verticale e non da altre divisioni aziendali a cui servirebbe ugualmente. Tali divisioni cominciano di nuovo il lavoro (o, semplicemente, non lo iniziano) senza sapere che cosa è già presente negli archivi. “Questo accade perché non si lavora in ottica di ecosistema per cui tutto è troppo frammentato” spiega Zarantonello. Una delle parole chiave usate da Zarantonello è “asset digitale”, che l’impresa deve considerare alla stessa stregua di un bene fisico. Quindi, va descritto, catalogato e memorizzato in un archivio centralizzato per poter essere immediatamente e facilmente disponibile all’occorrenza. “È un processo tecnologico, ma è prima di tutto un aspetto culturale e organizzativo. Tutti devono poter usare al momento giusto l’asset giusto per evitare duplicazioni e sprechi”.

La merce è fisica, ma è anche digitale

Ma il vero salto culturale da fare è quello di passare dalla gestione dell’asset digitale all’interno della singola impresa alla condivisione dell’intera filiera, che da fisica si trasformerebbe diventando anche digitale. “Oggi abbiamo fornitori evoluti di pelle e tessuti che hanno un ottimo grado di digitalizzazione dei loro prodotti e altri no. E non sempre i vari brand conoscono le risorse e gli asset dei loro partner. Il risultato è una filiera digitalizzata solo a pezzi” osserva Zarantonello. “Come agevolarne la digitalizzazione? Creando standard, fin dal momento della generazione dell’ordine. La merce è fisica, ma è anche digitale – prosegue Zarantonello – e come tale va trattata da tutti gli attori. Se ognuno mette il suo mattone, e dialoga con l’altro, la supply chain italiana evolverà”.

La sfida del Digital Product Passport

L’opportunità, la filiera ce l’ha a portata di mano. Si chiama Digital Product Passport, ovvero un insieme di informazioni sul prodotto a supporto dell’economia circolare e della sostenibilità. Per molte aziende è l’ennesimo onere burocratico da adempiere. Ma, come si sa, le sfide rappresentano un’opportunità. “Le imprese dovrebbero andare oltre il semplice rispetto della normativa. Per cui, se si devono fare grossi investimenti finanziari e di tempo per essere compliant, va trovato il modo di valorizzare il lavoro che le aziende devono eseguire, anche con lo scopo di offrire una più efficace narrazione della filiera del Made in Italy” osserva Zarantonello. “Da un lato occorre, quindi, percepire questa sfida come uno strumento di business. Dall’altro, però, serve sviluppare una standardizzazione dei processi per la filiera. Standardizzazione che potrebbe essere trainata e guidata dai gruppi più grandi della moda e del lusso. È una intera industria che deve muoversi, anche per avanzare delle proposte che possono diventare standard, senza subire passivamente il lavoro dei legislatori” spiega Zarantonello.

Il ruolo dell’AI

E in tutto questo qual è il ruolo dell’AI? Semplificare il lavoro e dare nuove capacità e competenze alle persone. “Per sfruttare l’Intelligenza Artificiale occorre formazione e informazione, con una grande attenzione alla qualità dei dati che sono il motore di queste tecnologie. Ci sono nuove competenze da sviluppare con un approccio proattivo di aziende e sistema” sottolinea con forza Zarantonello. “Se invece di lavorare manualmente su compiti ripetitivi, affidiamo l’elaborazione all’Intelligenza Artificiale, sicuramente sarà corretta e replicabile, con il personale che impiegherà il tempo risparmiato per svolgere altri compiti e per fare più cose, in modi nuovi” commenta Zarantonello.

L’umanista digitale

Ecco che, allora, entra in campo la figura dell’umanista digitale. Chi è? Cosa fa? Si tratta di una figura professionale che crede che la tecnologia diventi virtuosa quando permette alle persone di fare cose che non si credevano possibili. Oppure quando ridefinisce il modo in cui gli obiettivi delle persone possono essere raggiunti. “Anche nel caso dell’Intelligenza Artificiale – spiega Zarantonello – è necessario un approccio sistemico per mettere a fattor comune gli sforzi delle imprese della filiera”. E anche in questo caso la domanda sorge spontanea: come facilitare questo processo? “Il Made in Italy non è un hub. Non è ancora una piattaforma in cui mettere a fattore comune esperienze, formazione e tecnologie (da qui anche l’iniziativa Ingenium). Manca una cabina di regia che potrebbe davvero fungere da facilitatore per creare quella sinergia che tanto serve per la modernizzazione della filiera” conclude Zarantonello.

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