Che cos’altro serve alla gente per diffidare di Shein?

Ad agosto il gigante cinese dell’instant fashion ha subito due colpi abbastanza gravi: una testata tedesca e le autorità coreane hanno trovato nei suoi prodotti concentrazioni di sostanze tossiche superiori ai limiti di legge. Nella sua breve vita Shein è già stato protagonista di scandali del genere, ma la sua reputazione presso il grande pubblico non pare risentirne

di Roberto Procaccini

Certo, siamo garantisti e riconosciamo che quello che si staglia contro il colosso cinese dell’instant fashion è un processo indiziario. Ma gli indizi, qui, non sono i fatidici tre che insieme fanno una prova. Sono molti di più. Abbastanza per diffidare di Shein e del sistema industriale che ha allestito. Efficientissimo dal punto di vista produttivo e distributivo, in grado di macinare miliardi su miliardi di vendita (conditi da utili strepitosi). Ma torbido e lacunoso quando si arriva al tema della sicurezza dei consumatori, dei lavoratori e dell’ambiente.

Le ultime tegole

A cavallo dell’estate il colosso dell’instant fashion, come si definisce il modello produttivo e distributivo che ha sorpassato a destra il consueto fast fashion, è stato colto in fallo non una, ma due volte. Ad agosto Öko-test, giornale tedesco che conduce indagini a tutela dei consumatori, ha acquistato oltre venti prodotti (trasversali a categorie merceologiche e collezioni uomo, donna e bambino) per sottoporli a indagini laboratoriali. Bene, anzi male: è risultato che due terzi del campione non supera i test, presentando concentrazioni di sostanze tossiche a livelli ben superiori i limiti di legge. Prima ancora, raccontano le cronache internazionali, le autorità della Corea del Sud hanno sottoposto ad analisi oltre cento articoli di Shein, nonché di Temu e AliExpress (due player dell’instant fashion cinese): anche in questo la concentrazione di sostanze tossiche eccedeva le soglie di sicurezza. E non di poco.

Il precedente

Uno si dirà: “Che colpo alla reputazione! Impossibile risollevarsi”. E, invece, non è detto che sia così. Perché nella pur breve storia di Shein, che è nato nel 2008 (con altro nome) come portale di abiti da sposa, ma si è trasformato nel moloch globale della moda a bassissimo prezzo solo a cavallo della pandemia del 2020, ha già “precedenti specifici”, come si direbbe nel lessico giudiziario. Era l’autunno del 2023 quando Greenpeace denunciava di aver trovato in capi del marchio cinese sostanze chimiche come ftalati, formaldeide e nichel in quantità superiori ai limiti previsti dalle normative europee. Era ottobre 2021, invece, quando la testata canadese Marketplace aveva condotto in collaborazione con l’Università di Toronto analisi su capi e accessori di Shein (e altri) risultati, anche in questo, in gran parte fuori dal perimetro della sicurezza per il consumatore.

La salute, ma non solo

Fin qui ci siamo concentrati, partendo dagli ultimi casi di cronaca, sui laboratori indipendenti che hanno messo in discussione la sicurezza sanitaria dei prodotti Shein. Ma il dossier, come sappiamo, è più ampio. Riguarda l’impatto ambientale delle attività del portale e-commerce che, sostiene Business of Fashion, si candida a essere “il più inquinante player dell’industria della moda”, almeno per quanto riguarda le emissioni gassose e il carbon footprint. Senza dimenticare i dubbi sulla responsabilità sociale dello stesso colosso, che è stato accusato negli States di fare ricorso al lavoro forzato degli Uiguri dello Xinjiang, o di imporre agli operai dei fornitori condizioni di impiego intollerabili, come 75 ore di lavoro settimanali.

Diffidare di Shein

Da Shein hanno tutto il diritto di difendersi dalle accuse. Di pubblicare il proprio report di sostenibilità. Di rivendicare che “lavorano a stretto contatto con agenzie di analisi internazionali di terze parti, come Intertek, SGS, BV e TUV, per effettuare regolarmente test che garantiscano la conformità dei fornitori ai nostri standard di sicurezza dei prodotti”. La parola ora passa ai consumatori. Non c’è bisogno di perdere tempo a spiegare come mai trovino vantaggiosa l’offerta di sandali a 7,56 euro e borse a 4,20 euro. C’è da chiedersi quando riterranno che prezzi tanto bassi non valgano la sicurezza propria e altrui.

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