A dire e scrivere le cose come stanno è una testata particolarmente autorevole: Forbes. Sotto la lente della sua analisi e sotto il tiro delle sue domande (per nulla retoriche), è finito uno dei grandi bluff del marketing fashion: la cosiddetta “vegan leather”. Terminologia ingannevole vietata in Italia per legge, giochetto lessicale fuorviante per la cognizione del consumatore, definizione ingannevole che (per fortuna) suscita sempre più dubbi e perplessità
Arriverà il tempo in cui nessuno più cadrà (volontariamente o meno) nell’equivoco. Arriverà sull’onda di un altro momento, quello attuale, in cui è arrivato, fortunatamente, il momento di dire e scrivere le cose come stanno. E a farlo sono testate specializzate o addetti ai lavori impegnati nei diversi livelli e settori della filiera della moda e della pelle. A farlo, con un pezzo pubblicato online nelle scorse settimane e che potete leggere nella sua interezza cliccando qui, è Forbes. Non una testata qualunque, ma un’autorevole voce economica che dagli Stati Uniti si riverbera nel mondo. Cos’ha scritto, dunque? Semplice: che la cosiddetta “vegan leather” è un po’ come furono definiti i Sex Pistols. Se di loro si disse fossero la “grande truffa del rock’n’roll”, la “vegan leather” (termine vietato per legge in Italia) è la “grande truffa del fashion system”.
Dire e scrivere le cose come stanno
Forbes attacca frontalmente l’argomento ponendosi domande scomode, dato l’andazzo generale. Per esempio: qual è la differenza tra la “pelle” animale e quella vegetale? E perché “vegano” è diventato l’abbreviazione di “sostenibile”? E, per esempio, si risponde così: “Vegano, a proposito di pelle, è un termine di marketing e non la descrizione delle componenti di un materiale – si legge –. È un’usanza filtrata dal food alla moda. Nel food si dà per inteso che un alimento è vegano perché vegetale e non animale. Nella moda non è così, perché molta di quella che chiamano vegan leather è in realtà plastica”.
Un problema di disinformazione
Forbes, quindi, lo scrive in bold: “C’è un problema di disinformazione veg sulla pelle”. Problema che ha, per chi approfitta della confusione, evidenti ritorni economici. La testata USA infatti, investiga il mondo dei materiali alternativi alla pelle alla luce del loro successo economico e mediatico. Del fatto, cioè, che attirano investimenti e stringono prestigiosi accordi commerciali. “Sono sostenibili? – si chiede la testata – E davvero hanno un impatto ambientale minore della pelle?”. Di certo non sono comparabili per le prestazioni. “Ci sono prodotti interessanti e innovativi che s’affacciano sul mercato – riconosce Anya Hindmarch –: faremo le nostre valutazioni. Ma le mie ricerche mi dimostrano che la pelle, da fonti sostenibili e conciata in maniera responsabile, è la soluzione migliore”.
Più chiaro di così
Non credo esista questa cosa che chiamano pelle plant-based – dice Bill Amberg, designer di interni -. Ci sono tessuti non tessuti anche buoni: alcuni li usiamo. Ma se li devo valutare come alternative alla pelle animale, dico che non sono abbastanza forti, duraturi o riparabili. Non hanno carattere e sono troppo cari. Sono completamente diversi”. Più chiaro di così, è difficile dirlo e scriverlo. Incominciamo, però, a farlo tutti quanti.
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