Cosa insegnano le cadute rovinose di Kanye West e Kyrie Irving

Kanye West e Kyrie Irving. Il primo è un’icona della musica che della moda non è stato solo testimonial, ma protagonista. Il secondo è una stella dell’NBA che ha associato il proprio nome a Nike. Entrambi hanno visto il proprio ruolo in società e nel fashion system, costruito negli anni, crollare in poco tempo. Perché l’inclusività non consente “colpi di testa”, figurarsi i messaggi d’odio…

 

Non c’è nessuna fatalità, non c’è nessun capriccio del sistema. Delle cadute rovinose di Kanye West e di Kyrie Irving non deve colpire il perché, ma il come. Sulle ragioni c’è poco da discutere: entrambi a modo proprio (il cantante con un progressivo ma irreversibile deragliamento verso la causticità, il cestista con una sola, ma infausta, sortita pubblica) si sono messi ai margini del dibattito pubblico. Si sono, cioè, emarginati: perché la moda parla un linguaggio universale e non può contemplare nelle proprie fila chi, invece, lancia messaggi che alzano steccati. Sulle modalità c’è da apprendere una lezione. Perché West e Irving non sono due banali testimonial di brand, due celebrità sfruttate quando facevano comodo e respinte quando sono diventate scomode. West e Irving sono personalità che il proprio ruolo nella moda lo hanno costruito negli anni e l’hanno perso in pochi giorni.

 

Il tempo di un post

Partiamo dal caso di Irving. Classe ’92, cestista e figlio d’arte, gioca dal 2011 in NBA e dal 2019 è in forza ai Brooklyn Nets. Con la nazionale statunitense ha vinto l’oro alle Olimpiadi del 2016 e ai Mondiali del 2014. E, cosa che qui ci interessa di più, in virtù del suo essere una stella non solo vanta con Nike un ricco contratto di sponsorizzazione (11 milioni di dollari l’anno, secondo le news), ma a Nike ha dato il proprio nome per una linea di calzature da gioco (non ai livelli di Michael Jordan che con le Air è diventato a sua volta un brand, ma quasi). Be’, è saltato tutto: il contratto con Nike (in scadenza a ottobre 2023) e l’imminente lancio al pubblico delle Irving 8. Così come la centralità nei Nets, che l’hanno messo per cinque partite fuori squadra. Perché? Lo scorso ottobre il cestista non solo ha condiviso sui social un film a dir poco controverso, perché di stampo antisemita, negazionista dell’Olocausto e complottista. Ma ha provato a difendere la propria posizione. Irving, che è noto per essere un “free-thinker” (o una testa calda, che dir si voglia,) ha capito troppo tardi l’errore. E i tentativi di rimediare, come la donazione (rifiutata) di 500.000 dollari all’Anti-Defamation League, non lo hanno aiutato a riabilitarsi.

 

Farsi terra bruciata

È certamente diverso il caso di Kanye West. Perché il rapper, che ha ammesso di soffrire di bipolarismo, ha una più lunga storia da (scostante) agitatore culturale. Il divorzio con Kim Kardashian e il cambio all’anagrafe del cognome in Ye nel 2021 ne sono solo l’aspetto più superficiale. La scalcinata candidatura alla presidenza degli States, annunciata nel 2015 e ritirata nel 2020 dopo aver ricevuto lo 0,1% nei primi 12 Stati in cui si è votato, ne dà meglio la misura. Ma non sono mai state le sortite elettorali (incluso il sostegno a Trump) il problema. La questione è che negli anni West ha sostenuto posizioni controverse sulle armi, sull’aborto e sull’HIV, per dirne qualcuna. Tutto ha un limite, però, anche per le personalità che sui limiti ci costruiscono le carriere. Quando West lo scorso ottobre ha rivendicato le proprie posizioni antisemite, ha visto crollare come un castello di carta la propria posizione nella moda. Una dopo l’altra hanno interrotto le relazioni con lui Adidas (a costo di stroncare Yeezey), Gap e Balenciaga.

 

Le cadute rovinose

Non si tratta tanto di dedurre una morale dalle due vicende. Ma di riconoscervi una regola del mercato. Il dibattito pubblico, quello che dai social arriva ai media tradizionali e tramite questi si rifrange nelle conversazioni di tutti i giorni, è pervaso di messaggi “polarizzanti”. Perché in molti ambiti, la politica in primis, la polarizzazione funziona: dividere l’opinione pubblica con messaggi urticanti vuol dire presidiare il dibattito, alienarsi una parte della società ma legare a sé un’altra. Attività che la moda, inclusiva per missione, non tollera dal punto di vista dei valori e non trova utile da quello commerciale. La moda è universale e non ammette deroghe. Poco importa quanto sia radicato, valido o influente chi si spinge sul sentiero dell’hate speech, come lo chiamano gli inglesi: se supera certi confini, sarà espulso dalle attività.

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