La differenza tra greenwashing e clearwashing, spiegata bene

Le parole sono importanti, esattamente come lo è la trasparenza delle informazioni. Ma nella moda, tra greenwashing e la nuova categoria del clearwashing, l’obiettivo di vendere abiti e accessori con la massima chiarezza sembra, in generale, molto distante. Mentre endemico pare il ricorso a pratiche di marketing sempre più fuorvianti

 

Se ci imbattiamo nel termine “clearwashing”, evitiamo di commettere un errore, pensando a un sistema di lavaggio per sanificare il bucato. E nemmeno a un autolavaggio. Quindi, pensiamo che stiamo parlando del fratello maggiore del greenwashing. Maggiore non perché il termine sia stato coniato prima e quindi risulta più vecchio, ma perché maggiore è l’alone di confusione che genera. Specialmente al consumatore. Proviamo a capirci di più.

La differenza tra greenwashing e clearwashing

Il greenwashing consiste nel fare un’affermazione infondata per indurre i consumatori a credere che i prodotti siano rispettosi dell’ambiente o abbiano un impatto ambientale inferiore rispetto a quello che effettivamente hanno. Il clearwashing consiste, invece, nel dare ai consumatori informazioni inutili per stabilire il grado di sostenibilità di quel prodotto. “Se un’azienda mi fornisce l’indirizzo di un fornitore in Cina, ciò non mi dice nulla di quello che succede lì” sintetizza sul Washington Post Cosette Joyner Martinez, professoressa presso l’Oklahoma State University.

Febbraio 2020

Tra i primi a utilizzare il termine clearwashing, Business of Fashion ne parlò in un approfondimento dal titolo Lessons from fashion’s journey to radical transparency. Era il febbraio 2020. La pandemia stava per scoppiare in Italia. Il mondo era diverso da quello attuale. “È emerso chiaramente che il tipo di marketing basato sul greenwashing o sul clearwashing per vendere prodotti non funzionerà“, tagliava corto Maxine Bédat del New Standards Institute, società che cerca di “compattare l’industria all’interno di metriche coerenti per raggiungere obiettivi ambientali e sociali basati sulla scienza”.

BoF evidenziava come una comunicazione trasparente fosse indispensabile per evitare accuse di greenwashing o clearwashing, alimentate da una base di consumatori sempre più informata, consapevole e che oggi ha voce. E non si parla solo dell’azienda che produce il bene, ma anche di quella che lo vende al consumatore finale. Oggi, a distanza di tre anni, è legittimo chiedersi se l’affermazione di Maxine Bédat corrisponda davvero a realtà o no.

Tre anni dopo

Il termine clearwashing è tornato oggi alla ribalta grazie a The Washington Post che in un articolo definisce gli aggettivi “vegano, sostenibile, etico, biologico (e altri), come “affermazioni fuorvianti”. E spiega bene la differenza tra i due termini. Greenwashing: marketing ambientale con poca o nessuna sostanza a sostegno delle affermazioni. Clearwashing: marketing in cui le informazioni non dicono molto ai consumatori. In entrambi i casi la sostanza finale è che sono inutili ai consumatori per determinare se ciò che stanno acquistando è effettivamente migliore per l’ambiente e per i lavoratori.

“Il clearwashing – spiega Cosette Joyner Martinez – è fornire l’apparenza di ricche informazioni che alla fine non sono significative”. Un’inutile trasparenza come, per esempio, segnalare l’indirizzo di un fornitore cinese. Fare confusione, però, traina le vendite e ai consumatori finali non resta altro che “fare i compiti a casa”, come afferma Mark Sumner, docente alla School of Design dell’Università di Leeds. “Il compito a casa consiste davvero nel cercare di capire da quali marchi vuoi acquistare e perché, poi pensare a cosa fanno effettivamente quei marchi”. (mv)

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