Vietare la distruzione dell’invenduto è davvero la scelta giusta?

Un europeo butta via ogni anno ben 11 chilogrammi di capi d’abbigliamento. Nel mondo “un camion di vestiti al secondo finisce in discarica”. È la sporca legge dell’invenduto. Per alcuni governi la scelta giusta è vietarne la distruzione. Disegnando una geografia del divieto, proviamo a capire se hanno ragione a imporlo

 

Vietare la distruzione dell’invenduto è davvero la scelta giusta? Secondo le statistiche UE, in media, un europeo butta via ogni anno ben 11 chilogrammi di capi d’abbigliamento. Nel mondo, sottolinea Frans Timmermans (vicepresidente esecutivo per il Green Deal europeo), “un camion di vestiti al secondo finisce nell’inceneritore oppure in discarica”. È chiaro che c’è una sovrapproduzione e per limitarla i governi stanno pensando di partire dalla fine: evitare la distruzione dell’invenduto.

Francia e Italia

La Francia ha anticipato tutti con la legge AGEC (Loi Anti-Gaspillage pour une Économie Circulaire) che stabilisce come, dal primo gennaio 2022, i produttori (compreso chi produce moda) non possano più smaltire le merci invendute. Quello di Parigi è stato il primo governo al mondo a prendere un provvedimento del genere. L’Italia, che con la Francia condivide la produzione di moda per il lusso, ha fatto un passo in avanti. Adolfo Urso, ministro per le imprese e il made in Italy, promette, infatti, che l’asse Roma-Parigi avrà il suo peso a Bruxelles “soprattutto per quanto riguarda gli obblighi di divieto di distruzione dell’invenduto”.

Chi ci sta pensando

Molti altri Paesi stanno affrontando la questione. Il governo scozzese ha in programma un disegno di legge sull’economia circolare nel 2023. In Spagna, ad aprile 2022 è stata approvata una legge che disciplina lo smaltimento dei rifiuti che dovrebbe entrare in vigore quest’anno. In Germania, nel 2019, una legge sull’economia circolare introduce una maggiore prevenzione dei rifiuti. Nei Paesi Bassi hanno l’ambizione di sviluppare un’economia circolare entro il 2050: un primo step è la riduzione del 50% dell’uso di materie prime primarie (minerali, fossili e metalli) entro il 2030. Tra i vari obiettivi anche il divieto alla distruzione dell’invenduto.

Bruxelles e gli altri

L’UE non è rimasta a guardare. Il 30 marzo 2022 ha pubblicato una proposta di regolamento intitolata “ESPR – Ecodesign for Sustainable Products” in cui viene proibita la distruzione delle merci invendute con l’obiettivo di migliorare, tra l’altro, la circolarità dei prodotti. La data prevista per l’adozione di norme specifiche relative al settore tessile moda è il 2025. Negli Stati Uniti, nonostante i crescenti movimenti che incitano alla lotta allo spreco, è ancora legale distruggere i prodotti in eccesso. Dagli altri continenti, invece, non arriva notizia alcuna.

È davvero la scelta giusta?

Ma proibire la distruzione dell’invenduto è la scelta giusta? L’istituto tedesco per le strategie ambientali Ökopol (membro dell’EEB – Europen Environmental Bureau), non ne è convinto. Scrive che la deliberata distruzione o smaltimento di beni restituiti o invenduti contraddice gravemente due degli obiettivi chiave del Green Deal europeo e del piano d’azione per l’economia circolare dell’Unione Europea. Uno: la promozione di un’economia circolare efficiente sotto il profilo delle risorse. Due: la riduzione della produzione di rifiuti. Inoltre, in molti temono che i divieti di discarica, se non accompagnati da soluzioni complete per il modo in cui le aziende gestiscono i loro rifiuti, finiscano per far sì che gli articoli vengano scaricati altrove.

Che fare?

Sul New York Times, Genevieve LeBaron, esperta di lavoro internazionale presso la Simon Fraser University in Canada, osserva che con una notevole resistenza da parte di molte aziende, l’incombente recessione globale e un panorama geopolitico instabile, mettere in pratica tutto ciò sarebbe tutt’altro che semplice. Mentre a WWD Philippe Schiesser, fondatore della società di consulenza di eco-design Ecoeff Lab, amplia gli orizzonti: “Dobbiamo vedere oltre il contesto francese o europeo. Non ha senso creare un sistema per un solo territorio, perché nel bene e nel male il settore della moda è globale”.

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