Vi raccontiamo la storia esemplare di Ethical Fashion Initiative

Mettetevi comodi e godetevi questo articolo. Perché la storia di Ethical Fashion Initiative, raccontata per voce del suo ideatore, Simone Cipriani, è sicuramente la più interessante, stimolante e inclusiva che leggerete oggi

 

L’altopiano di Laikipia, a circa 180 chilometri da Nairobi, in Kenya, è tuttora teatro di cruenti scontri tra le diverse etnie che popolano la zona. Le siccità che si sono susseguite negli anni hanno ulteriormente esasperato la situazione. Ma nel 2016, mentre gli uomini si facevano la guerra, le donne hanno capito che dovevano unirsi. Così hanno creato Satubo, acronimo dei nomi delle comunità Samburu, Turkana e Borana, valorizzando la propria capacità di decorare gli oggetti con le perline. E hanno iniziato a lavorare con EFI – Ethical Fashion Initiative dopo che la siccità ha decimato il bestiame per il controllo del quale erano scoppiati molti degli scontri tra le varie etnie. Una volta capito come poter gestire Satubo, nel 2018 EFI ha inviato per 6-7 mesi alcuni formatori. Poi è arrivata anche Vivienne Westwood e tutto è filato liscio fino allo scoppio della pandemia.

“Abbiamo perso tutti i contatti. E non potevamo più raggiungere fisicamente l’area di Laikipia” racconta Simone Cipriani, classe ’64, fondatore e manager di EFI, nonché presidente dell’Alleanza delle Nazioni Unite per la Moda Sostenibile. Il racconto di Cipriani prosegue: “Quando, dopo due anni, siamo tornati nell’altopiano, con nostro stupore, abbiamo trovato un edificio costruito alla perfezione e adibito a scuola. “Ce lo avete insegnato voi come si fa!” ci hanno detto le donne che nel frattempo si erano organizzate per realizzare e vendere prodotti per i turisti.

Il programma Ethical Fashion Initiative

Questa è solo una delle tante storie targate Ethical Fashion Initiative, programma di punta dell’International Trade Centre, agenzia congiunta delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. EFI punta a ridurre la povertà globale connettendo i microproduttori e gli artigiani attivi nei PVS alla supply chain internazionale della moda. In questo modo ottiene di distribuire “salari equi e dignitosi” mentre, allo stesso tempo, cerca di attivarsi come “acceleratore per i talenti africani della fashion industry”.

Tutto comincia a Nairobi

“Tutto è iniziato dopo gli anni Duemila a Korogocho, la baraccopoli alla periferia di Nairobi, da un incontro col missionario laico Gino Filippini. Volevamo creare un business sostenibile legato alla moda per chi era stato escluso dall’economia mondiale. Un progetto di inclusione, di riscatto sociale in cui lo slogan era “Not charity, just work”. Abbiamo scritto questo slogan su cartelli che abbiamo affisso ovunque” racconta Cipriani.

Nel 2009 arriva la prima impresa sociale. “Non sono mancate le difficoltà. Chi aveva imparato il mestiere lungo la strada avrebbe dovuto produrre per le griffe del lusso, apprendendo un metodo di lavoro in un ambiente strutturato per questo. Così come bisognava convincerlo che eravamo persone affidabili. E poi il credito, visto che il costo del capitale è altissimo”. A dare una grande mano al decollo di EFI ci ha pensato Vivienne Westwood che per 12 anni ha dato lavoro a EFI. In un primo tempo includendone i prodotti nelle collezioni, successivamente progettando capi e accessori che gli artigiani erano in grado di realizzare.

Nota bene: per farlo decide di ridurre la quota dei suoi guadagni per fare spazio agli articoli EFI, più costosi di altri, almeno inizialmente. Hanno aiutato EFI anche Rosy Biffi e Franca Sozzani, endorsement concreti e attivi che hanno portato il programma a coinvolgere, oggi, oltre 90 cooperative dislocate in 11 Paesi. Erano 12 prima dell’avvento dei talebani in Afghanistan che hanno costretto Cipriani a interrompere ogni attività. In ogni Paese c’è un’azienda capogruppo. “Covid ci ha penalizzato, ma ora abbiamo ottime prospettive. Vogliamo ampliare il lavoro, realizzare un centro di coordinamento africano, investire per potenziare l’acceleratore di nuovi marchi africani” sottolinea Cipriani.

Il sogno di una moda etica

L’Italia ha sempre sostenuto il programma EFI. Dopo la presenza a Pitti Uomo è arrivata quella a Lineapelle, con uno spazio espositivo, all’interno dell’edizione svolta lo scorso febbraio. Riccardo Braccialini, titolare di Pelfim (Pelletteria Fiorentina Montecristo), è consulente strategico del programma. Una volta al mese, per una settimana, l’imprenditore è a Nairobi, ormai quartier generale africano, a tradurre operativamente i progetti. “Le donne locali possiedono una manualità pazzesca e hanno voglia di uscire dalla povertà, lavorando. Ed è questo che offriamo loro” racconta Braccialini.

“È davvero bello vedere come in Burkina Faso 2.900 donne, che avevano perso il lavoro e accantonato i telai per la tessitura a causa dell’arrivo delle merci cinesi a basso costo, abbiano recuperato i telai dismessi (ripristinati da tecnici italiani) e ripreso il lavoro che sapevano fare. Cipriani ha coinvolto la tessitura Ratti per migliorare la qualità della produzione. E oggi vendono un cotone naturale di prima qualità e tessuto a mano. In Kenya facciamo borse, accessori, ricami. L’anno scorso EFI e i nostri partner di Artisan Fashion in Kenya sono stati orgogliosi di lavorare con Emporio Armani alla loro collezione Olimpia Milano. “Il prossimo passo è allestire scuole di formazione” conclude Braccialini. Formazione, quindi, per continuare a sognare (e a produrre) moda etica.

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