Il rischio di ridurre la sostenibilità a una barzelletta

Patagonia pubblica un lungo e spassoso documentario, comico sin dal titolo (“Shittropocene”), per convincere il pubblico a pensarci di più prima di cedere allo shopping compulsivo. Un’operazione interessante che parla di sostenibilità, ma con un grosso limite

di Roberto Procaccini

 

Ogni strumento è legittimo per discutere di moda green con un bacino di pubblico il più ampio possibile. Usare il registro dell’ironia e dell’autoironia, allora, è mossa non solo legittima, ma anche azzeccata, soprattutto quando gli altri sullo stesso tema tendono a prendersi molto sul serio. Il rischio, però, è ridurre la sostenibilità a una barzelletta, dove tutto è molto simpatico, ma le cose serie non sono trattate con la necessaria profondità. Patagonia, che ha diffuso sui propri social un documentario comico sin dal titolo (“Shittropocene”, traducibile come “l’era della merda umana”), mostra in un colpo solo vizi e virtù di un’operazione del genere.

Le virtù: fa ridere ma anche riflettere

Shittropocene è la parodia di “antropocene”, cioè la definizione della nostra era geologica: la prima profondamente segnata dalle attività umane. Il documentario di Patagonia, brand californiano dell’abbigliamento outdoor, in 46 minuti declina una riflessione sull’impatto ambientale che i singoli consumatori hanno con i loro acquisti. E, ancor di più, sulle responsabilità dell’industria della moda, che con le leve del marketing distorce gli impulsi ancestrali di autogratificazione dell’uomo a favore della corsa allo shopping. Il video è una condanna del fast fashion, nonché un appello al consumo critico e ai prodotti durevoli. Il tutto in chiave comica, con uno stile da “infotainment” (che unisce, cioè, informazione e intrattenimento) in grado di catturare l’attenzione della quota di pubblico che, altrimenti, non arriverebbe alla fine di un video di tre quarti d’ora.

Il vizio: ridurre la sostenibilità a una barzelletta

Il confine tra autoironia e autoindulgenza è labile, ma c’è. Quindi bisogna fare i complimenti a quelli di Patagonia per il coraggio di raccontare dall’interno i processi aziendali. Oggi nessuno vuole parlare in pubblico dei propri errori, anzi, corre a nasconderli. Invece i manager del brand californiano ci hanno messo la faccia e hanno spiegato come il raggiungimento di un certo obiettivo implica l’averlo prima fallito fino all’identificazione della strategia più opportuna.

Qual è il problema? Che il documentario, tra una parolaccia e una freddura, vola però veloce sulle implicazioni delle scelte in questione, ad esempio, nel dualismo tra tessuti sintetici e naturali. Indugia, in questo senso, sui rischi associati alla filiera del cotone, che già poneva complessità dal punto di vista dell’impatto ambientale e che, dal 2019 in poi, ne ha posti anche sul piano della sostenibilità sociale con la questione dello sfruttamento della minoranza uiguri nella regione cinese dello Xinjiang. Ma lo stesso documentario non spende una parola sulla filiera dei derivati del petrolio, salvo suggerire che, riciclando le reti da pesca in disuso, s’è fatto un favore all’ambiente.

Lo stadio finale: l’ipocrisia

Ma non è solo questo. L’accusa di Shittropocene al fast fashion è, per proprietà transitiva, una denuncia alla manifattura asiatica: cheap, insensibile ai diritti dei lavoratori e alle sorti dell’ambiente. Ecco, peccato che lo scorso giugno un’inchiesta di Follow The Money svelava che Patagonia si affida agli stessi fornitori dello Sri Lanka da cui fa spese Primark, cioè proprio uno di quei brand che Patagonia biasima tanto per le pratiche irresponsabili e bulimiche. Il controllo della filiera è difficile e nessuno è al riparo da errori: ma su un tema del genere passa la voglia di scherzare.

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