Nel 2021 la bolla degli NFT (non fungible token) è cresciuta del +21.000% su base annua. La fashion industry ha subito accettato di dare il suo contributo a questa nuova innovazione (o provocazione?) digitale. Oggi, però, il settore vive una roboante frenata. Al punto che qualcuno inizia a sospettare che tutta questa frenesia fosse soprattutto frutto di un certo tipo di pulsioni speculative: collezionistiche, ma soprattutto prive di controllo e regolamenti
Partiamo da un esempio che non riguarda la moda, ma che parla anche alla moda, perché spiega molto di quello che non funziona nella bolla degli NFT. Il 5 marzo 2021 Jack Dorsey, fondatore nonché ex CEO di Twitter, ha venduto all’asta l’NFT del primo tweet in assoluto pubblicato sul social network nel 2006. A termine di 15 giorni di contrattazioni, l’imprenditore iraniano Sina Estavi si è aggiudicato il non fungible token (asset digitale tracciato e non replicabile) per 2,9 milioni di dollari. Bene, 13 mesi dopo, il 7 aprile 2022, Estavi ha rimesso in vendita lo stesso NFT con una base d’asta di 48 milioni. Secondo le cronache giornalistiche, l’offerta più alta ricevuta è stata di 12.000 dollari.
Anno d’oro, trimestre orribile
L’arco temporale della sventurata vicenda dell’NFT di Jack Dorsey è molto significativo. La prima aggiudicazione è arrivata nel 2021, anno d’oro del fenomeno NFT. Secondo il report dell’osservatorio NonFungible, scrive the Wall Street Journal, nell’anno il mercato ha mosso 17,6 miliardi di dollari, cioè il +21.000% su base annua. Nel periodo gennaio-marzo 2022, cioè quando si è consumata l’asta fallimentare bandita da Estavi, lo stesso osservatorio registra un crollo delle vendite di NFT. Mentre il numero delle transazioni quotidiane segnava una contrazione vertiginosa (anche del -90% rispetto ai picchi di settembre 2021), il valore dell’investimento iniziale ha perso in media il 50% rispetto all’ultimo trimestre del 2021.
I limiti strutturali
Quando la bolla degli NFT non mostrava ancora segni così bruschi di frenata, gli osservatori più attenti già mettevano in guardia. Occhio, il cosiddetto “web 3” (di cui fanno parte gli NFT, con il Metaverso e la blockchain) si basa su un presupposto fragile. Fragilissimo. L’idea, cioè, di ricreare artificialmente il principio di scarsità in un sistema (la rete) dove non c’è. Finito l’entusiasmo, si riconoscono gli effetti della forzatura. A proposito delle aste di NFT, ad esempio, l’esperta Fanny Lakoubay spiega a Le Monde che “i collezionisti non vi partecipano sulla base di una vera passione”. Allora in base a cosa? Al più “al desiderio di proselitismo che si sovrappone a quello di profitto: comprano NFT come azioni, per poi venderle a un prezzo maggiorato o a perdere”. Ecco, il problema è che il collezionista/speculatore medio da qualche tempo non trova più adepti.
Presto per i bilanci definitivi
A qualcuno viene voglia di tirare già le somme. E approfittare delle contestuali difficoltà delle tecnologie collegate (come le criptovalute) per sancire la fine degli NFT. Forse, è meglio non affrettare il giudizio: ci sono ancora big dell’economia (anche e soprattutto moda) che entrano nel settore e possono sovvertirne le sorti. Di certo, l’ecosistema del web 3 (che nella numerazione segue il primo internet, quello dell’esplosione di massa negli anni ’90, e il secondo, quello del nuovo millennio, di Google e di Facebook) mostra per la prima volta il bisogno di una revisione. “Hanno celebrato il web 3 come un modo per liberare Internet dai giganti della tecnologia che ora lo controllano – scrive il New York Times –. Invece assistiamo all’opposto: si inquina il mondo digitale con un fitto smog di errori, truffe e costose speculazioni finanziarie in gran parte non regolamentate che rovinano qualsiasi frammento di fiducia che rimanga ancora sul mondo digitale”.
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